La situazione produttiva del Paese tende al peggio e tutte le previsioni confermano quello che sapevamo da tempo. Una caduta del Pil tra i due e i tre punti a consuntivo dell’anno in corso porta a quasi dieci punti il passo indietro del Paese in questi quattro anni di crisi.Il risultato, drammatico, è che il lavoro e l’occupazione sono la prima e fondamentale questione aperta di fronte a noi. Si tocca qui con mano l’irresponsabilità con cui il governo di centrodestra ha lasciato andare le cose, negando e minimizzando la portata della crisi in corso, ma anche il limite di fondo della politica che il governo Monti, stretto tra la crisi degli spreade la necessità di recuperare innanzitutto la credibilità del Paese nel consesso europeo e internazionale. La vertenza dell’Alcoa è l’ennesima tappa di un calvario che è destinato a proseguire, anche quando chiusure e disoccupazione non faranno notizia perché relative a piccole e piccolissime aziende o di settori diversi da quello industriale. E oltre alla responsabilità di anni e anni senza uno straccio di politica industriale e di comportamenti imprenditoriali troppo disinvolti nel giocare col destino delle loro aziende e con l’occupazione dei propri lavoratori il presente e l’immediato futuro tornano e torneranno a chiedere una diversa priorità nelle scelte di politica economica e un necessario riequilibrio tra i vincoli del rigore (che non potranno essere allentati) e quelli della crescita, troppo trascurati in attesa che una riorganizzazione dell’offerta trovi nel tempo una qualche domanda di beni, prodotti e servizi. Crescita, lavoro, occupazione devono costituire il centro della stagione che si apre e che ci porterà ai programmi elettorali e poi alle elezioni. Non ci potrà essere agenda politica vecchia e nuova che potrà prescindere da quello che appare peraltro il tema più difficile e impegnativo, ancor più delle questioni di bilancio. Come affrontare un persistente calo dei consumi, dei redditi e della domanda, come usare la leva pubblica per i processi di innovazione e sostegno alla produzione, come difendere non in chiave assistenziale settori strategici nella competizione internazionale, come non abbandonare la domanda di credito e di semplificazione da parte delle piccole imprese, e come arrestare la progressiva dequalificazione del lavoro, e dei suoi diritti, compresi quelli delle tutele in una crisi che non dà segno di finire: sono questi i temi da cui nessuno può oggi fuggire. Proprio per questo la scelta di aprire un fronte referendario da parte di alcune forze politiche e personalità attente ai problemi del lavoro, in questo tempo e in questa condizione, non convince ed è troppo al di sotto del profilo di cambiamento che bisogna tenere. La critica muove da diversi fattori e si può riassumere in tre domande. La prima: se mentre si prepara la fase che porta alle elezioni e al possibile e auspicabile cambio del quadro politico, con le conseguenze che può avere sulle norme o su una parte di esse oggetto dei referendum, che segno dà alla prospettiva del cambiamento una strada referendaria che divide sia per i temi che affronta che per quelli che non tocca (ad esempio tutto il tema della precarietà) e che sarà sottoposta al voto nel 2014, oltre un anno dopo lo svolgimento delle elezioni? Un segno di fiducia o di sfiducia? In secondo luogo, dove si può cambiare, se non in Parlamento, quella parte della legge del lavoro che, come anche le imprese lamentano, mostra già ora di non reggere la prova dei processi reali dagli ammortizzatori ai lavori stagionali, alla precarietà, come dire il cuore dei problemi delle persone? E a quel punto, come possono essere giustificati i due binari che procedono parallelamente e quali problemi potranno porre a chi vuole cambiare? Infine: la storia dei referendum sul lavoro dovrebbe suggerire prudenza, misura, attenzione. Nel passato abbiamo avuto referendum che si pensava di vincere e che invece sono stati persi, per di più con il voto operaio. Altri referendum ci hanno consegnato un risultato che ancora oggi ci impedisce di formare rappresentanze democratiche solo in ragione del fatto che non si è firmatari di contratti nazionali. In un’altra occasione si è fatta testimonianza dignitosa di coerenza ma il quorum non è stato raggiunto. Questa è la storia e questi sono i fatti. Naturalmente i lavoratori e i cittadini che firmeranno andranno capiti e rispettati nel nome di un istituto e una scelta assolutamente democratici. Ma chi li ha promossi, al di là delle intenzioni, non aiuta certo né le ragioni dell’unità sociale tra lavoratori, giovani, precari e pensionati, né la speranza e il bisogno del cambiamento.
L’Unità 12.09.12
Pubblicato il 12 Settembre 2012