Consiglia, un amico psicoanalista, di guardare le cose «da un ramo più alto». Non dal più alto, dalla vetta, ma insomma provare un po’ a salire. Parla, ovviamente, del suo mestiere e si riferisce dunque ai travagli interiori. Ma il metodo (meno semplice di quel che sembri) si presta a interessanti applicazioni. Per esempio alla scuola, alla politica scolastica, all’istruzione, pubblica e no, alla formazione, a tutto quel malinconico viluppo di problemi che ogni settembre torna di attualità insieme con il rituale allarme sul peso dei libri che ingobbisce i bambini. Ora, arrampicandosi un po’ su questo tronco e mettendo la testa fuori dal fogliame si vede, nudo e crudo, il nodo fondamentale e insieme il bandolo dell’intera matassa. E cioè che istruzione e formazione non sono mai stati e continuano a non essere la priorità della politica nazionale. O, per meglio dire, della politica nazionale nell’Italia repubblicana.
All’indomani dell’Unità infatti, con un Paese di ventidue milioni di abitanti, più di tre quarti dei quali analfabeti, l’istruzione fu la priorità o una delle priorità. Per la semplice ragione che era in gioco appunto l’unità nazionale e l’istruzione era il collante necessario. Da qui l’epopea, tutta italiana, dei maestri e delle maestre, celebrata sia in letteratura sia nel comune sentire. Ma anche per il fascismo, che pensava l’Italia come grande potenza e voleva dotarla di una classe dirigente adeguata, l’istruzione fu una priorità, messa coerentemente in pratica dalla formidabile riforma Gentile e imperniata non più sul maestro (ma Mussolini lo era…), bensì sul professore di liceo.
L’Italia repubblicana, uscita distrutta dalla guerra, ha avuto altre impellenti urgenze: la collocazione internazionale e la ricostruzione, politica estera ed economia; sull’istruzione si poteva rimandare e intanto tirare avanti. Tant’è che la più grande azione formativa del dopoguerra, l’unificazione linguistica del Paese, fu attuata, al di fuori della scuola, dalla televisione. Intorno alla scuola invece, si sono condotte guerre di trincea sorde e parziali, in difesa da parte dei cattolici (che identificano ambiguamente istruzione ed educazione) della scuola privata e da parte della sinistra in difesa del personale, docente e non, ma più non che docente, badando soprattutto alla quantità piuttosto che alla qualità. (Giacché a nessuno sfugge che vi sono qui in ballo alcuni bei milioni di voti). Con il risultato di ottenere oggi per gli insegnanti una posizione economica e sociale insostenibile e umiliante.
Nel frattempo un vorticare di riformine e riformette, di grandi cambiamenti di nome, di belle trovate da parte dei ministri: i crediti, le tre «I», le lavagne luminose, i certami. Tutte egregie persone, i ministri, per carità, ma tutti sconsolatamente ciechi di fronte a quel che stava e sta avvenendo sotto i loro occhi. E cioè in primo luogo una radicale trasformazione dell’idea di ricchezza, dall’essere fatta di cose all’essere fatta di teste e di ciò che queste teste contengono. Sicché, a proposito di cambiar nomi, si potrebbe passare da ministero della Pubblica istruzione a ministero del Capitale nazionale. E in secondo luogo il fatto che istruzione e formazione non sono più una fase, un delimitato periodo, nella vita di un individuo, ma una funzione costante, che trasforma la vita stessa in apprendimento permanente.
Per tradurre tutto questo in pratica non basta biascicare le giaculatorie «società della conoscenza» e «protocollo di Lisbona»: occorre inventiva, fantasia concreta e prima ancora gusto della realtà. Occorrono le virtù specifiche della politica, quella vera. Che oggi mancano non perché il governo è tecnico (è al contrario politicissimo), ma perché, come nel dopoguerra, è un governo di ricostruzione e ha quindi un’altra priorità. Le avranno, queste virtù, i partiti che tra qualche mese si candideranno alla guida del Paese? Sapranno porre istruzione e formazione come vera priorità?
Il Corriere della Sera 11.09.12