Un Ministro dello Sviluppo che, quando faceva il banchiere, ha contribuito a salvare l’Alitalia (a spese del contribuente) non può limitarsi a dire agli arrabbiatissimi lavoratori dell’Alcoa che non c’è niente da fare. È troppo tardiva la correzione di ieri: ormai il danno è fatto. Ed è sperabile che il ministro del Lavoro non riprenda il refrain che le è caro. Ovvero che: «Il lavoro non è un diritto. Bisogna meritarselo, anche con il sacrificio». Di sacrifici dei lavoratori, specie manuali, è purtroppo piena la storia anche recente, anche di ieri, con l’operaio di Taranto ustionato gravemente mentre lavorava a mettere a norma uno degli impianti più scandalosamente pericolosi del nostro paese. Di fronte alla crescita inarrestabile della disoccupazione, cui si unisce quella della inattività per scoraggiamento e disperazione, nessuno, tanto meno chi governa, può permettersi di dire alternativamente che non c’è nulla da fare e che se non si ha lavoro è perché non lo si merita abbastanza. Il problema del mercato del lavoro italiano, della disoccupazione giovanile che non rallenta, della disoccupazione dei quaranta-cinquantenni, delle donne che non ce la fanno a tenere insieme il doppio carico di lavoro pagato e non pagato, in una situazione in cui i pochi servizi disponibili vengono ridotti e i datori di lavoro hanno sempre più il coltello per il manico, non dipende certo dal fatto che tutti questi soggetti non si meritano abbastanza un posto di lavoro decente. Non vorrei che, dopo l’ottocentesca distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli, ora se ne inventasse una analoga per i lavoratori, per nascondere così le responsabilità sia della politica che dell’imprenditoria e della finanza per la crisi economica in cui ci troviamo e le crescenti disuguaglianze che sta producendo.
La crisi economica e sociale che stiamo attraversando non è certamente responsabilità principale di questo governo, come ci viene ricordato continuamente con toni da salvatori della patria ora da uno, ora dall’altro ministro e dallo stesso presidente del Consiglio (anche se non pochi di coloro che ora ne fanno parte hanno avuto non irrilevanti responsabilità politiche ed economiche in passato). Sia il caso Taranto sia il caso Alcoa testimoniano di quanta insipienza politica e imprenditoriale sia stata capace la nostra classe dirigente. Tuttavia il governo non può chiamarsi fuori dalle proprie
responsabilità di fronte al destino di migliaia lavoratori e lavoratrici e delle loro famiglie. La politica del rigore non solo non basta, ma può provocare, se non corretta e compensata, danni sociali, oltre che economici, gravissimi e di lungo periodo. I tafferugli, le intemperanze avvenute ieri a Roma nel corso della manifestazione degli operai dell’Alcoa sono la spia di una tensione che sta montando e si incattivisce anche perché non trova una sponda credibile, un orizzonte di azione praticabile. È vero che l’Alcoa era una azienda pesantemente sussidiata, che ha tratto il proprio profitto sia dal lavoro dei suoi operai che dal finanziamento pubblico. È stato probabilmente uno sbaglio spendere così risorse che avrebbero potuto essere meglio investite per produrre occasioni di lavoro più sostenibili. Ma oggi non si possono cambiare le regole senza farsi carico del destino di chi alla fine risulta essere più vittima che beneficiario di quelle scelte. Perché ha lavorato, ha fatto il proprio dovere, in cambio di una paga modesta. Non c’è politica di rigore che tenga. Occorre, per questi operai e per le migliaia di altri lavoratori che rischiano di perdere il lavoro nelle prossime settimane e mesi, o di non trovarlo quando lo cercano, preparare occasioni di lavoro sostenibili, in primis nella produzione di quei beni collettivi di cui il nostro paese ha tanto bisogno: cura dell’ambiente, dei beni culturali, delle persone non autosufficienti. La politica del rigore ad ogni costo non sta dando i risultati sperati. La luce in fondo al tunnel sembra più una chimera che una speranza. E comunque gli individui e le famiglie devono poter vivere ogni giorno ed avere un orizzonte temporale minimo per fare progetti e alimentare speranze.
Invece di ripeterci che il lavoro non èun diritto esigibile e che il governo non può garantire il lavoro a tutti, il governo dovrebbe ricordarsi che l’articolo 4 della Costituzione affida allo stato una grande responsabi-lità, quella di promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro. Meglio se contestualmente investe e fa investire nella produzione di beni collettivi. Se non ora, quando?
La Repubblica 11.09.12
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“Perché da noi il salvataggio è impossibile”, di LUCA RICOLFI
Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).
Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non c’entrano nulla, che cosa si può fare?
Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.
Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.
Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.
Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?
Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.
Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» – insieme con la Fondazione «David Hume» – proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire – alla fine – un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.
Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa – e di molto – il costo del produrre in Italia.
La Stampa 11.09.12
Pubblicato il 11 Settembre 2012