Uno spettro si aggira per l’Europa: i populismi. Che sembrano tanto più motivati quanto più l’euro, grazie soprattutto a Draghi, supera faticosamente le sue debolezze, con strumenti non automatici, ma certi e illimitati. E tuttavia non gratuiti, ma anzi condizionati. Quelle condizioni, poste dalla Bce, non saranno più solo dolorosi tagli ai bilanci degli Stati, ma — lo ha spiegato ieri Scalfari — ci saranno, e saranno cogenti, in tutti i casi in cui si ricorra allo scudo anti-spread. Quindi o per auto-disciplina o per obbedienza alla troika, la linea per la ripresa, per lo sviluppo, dovrà passare attraverso politiche di riforma economica e sociale, e anche di mentalità. Politiche che hanno costi sociali oggi mal distribuiti, poiché gravano in gran parte sul lavoro dipendente.
Tutto ciò ha in sé una necessità non metafisica ma contingente, storica. Nel senso che non ci sono forze, interessi, energie, orizzonti, in grado di opporsi credibilmente al disegno dell’euro, e anche nel senso che l’euro, politicamente rafforzato e divenuto moneta politica di un’entità politica (l’Europa federale), è la migliore risposta, presente oggi sul campo, all’instabilità intrinseca dell’economia globalizzata. Insomma, l’euro non è una prospettiva solo tecnica, come è stata presentata finora da una politica che ha paura delle proprie responsabilità, al punto che ha affidato il lavoro duro a un tecnico come Monti, ma anzi è una risorsa politica, o politicizzabile. L’euro può permettere all’Europa — se la Germania cesserà di essere l’Amleto del continente, come è stata, a volte, anche in passato — di costituirsi come “differenza” sulla scena del mondo; di gestire l’economia con attenzione politica allo sviluppo sociale — di realizzare il “modello europeo”, appunto. L’errore che si fa spesso al riguardo è duplice: non solo di fare dell’euro un espediente tecnico-finanziario, ma anche di non valutare appieno le conseguenze dei suoi costi sociali attuali. Un costo che in Italia (per colpa di molti anni perduti nella fase berlusconiana della nostra politica) nessuno, per non dispiacere al proprio elettorato, si era mai premurato di spalmare nel tempo, e che è stato fatto pagare al sistema economico e ai cittadini quasi tutto a partire dal 2011 (negli ultimi mesi del governo Berlusconi e nel governo Monti). Quei due errori uniti hanno fatto sì che il disagio sociale reso acuto dalle inadempienze della politica, abbia preso, in parecchi Stati europei, la forma di una protesta politica del popolo contro i politici asserviti ai tecnici: una protesta, cioè, che ha le forme del populismo e dell’antipolitica, ma che è a tutti gli effetti politica. Cattiva politica, pessima politica. E non solo perché è estremistica, antisistema, e tendenzialmente violenta, almeno nelle sue espressioni verbali; ma perché è del tutto ineffettuale, perché non ha alcuna chance di essere “azione”, ma è solo protesta ipersemplificata — com’è tipico dei populismi — , e rivolta contro un nemico di volta in volta inventato ad hoc.
Monti ha visto bene il problema, invocando un vertice europeo contro le forze anti Ue.
Se alla politica europea manca la grande decisione democratica — il che la fa essere timida, incerta, e la porta a nascondersi dietro la tecnica, e a non vedere che il disagio sociale è anch’esso una questione politica —, al populismo manca necessariamente la percezione della complessità del momento storico; anzi, contro la complessità si scaglia, e la semplifica mettendoci sopra un nome, una faccia del Nemico: prima l’immigrato (preferibilmente islamico), poi la Casta, poi il finanziere, poi il tecnocrate. Il populismo è spettrale, benché sia una forza politica reale, perché, violento e superficiale a un tempo, trasforma i problemi reali in immagini e in risentimento (prima di Grillo, lo facevano Bossi e Berlusconi), e così elude o cancella la comprensione del tempo storico. È una scelta facile, quella populista; ed è ancora più facile se si lascia che il conflitto fra posizioni pro-euro e posizioni anti-euro diventi il conflitto fra la tecnica (che asservisce a sé la politica) e la buona politica del popolo (nella forma del populismo presunto anti-politico). Se non si riesce a far diventare quel conflitto, nel discorso pubblico, ciò che è nella sostanza: il conflitto fra la buona politica e la cattiva politica.
C’è dunque l’esigenza urgente di una politica che non ha paura di sé, delle proprie responsabilità, delle proprie decisioni. Di una politica che riconosca e incorpori le necessità del momento — con il realismo che alla politica deve appartenere, perché la politica è il potere che vuole agire — , che non si conceda illusioni, ma che rivendichi il proprio primato nelle cose umane; ovvero rivendichi di potere orientare e governare, senza eluderla, la necessità, l’emergenza; di saperle dare un indirizzo, un ordine specifico. E che quindi non abdica ai propri compiti — che, nel nostro caso, sono di proseguire l’opera di bonifica, ancora lontanissima dalla fine, dell’organizzazione dello Stato e della vita sociale ed economica del Paese — , prospettando che l’esercizio dei diritti politici (le elezioni) sia ininfluente, dato che, comunque i cittadini votino, avranno sempre davanti a sé le stesse politiche e forse le stesse persone. E lasciando così praterie sterminate al populismo, che oltre alla bandiera della protesta potrebbe anche agitare quella della politica. Davanti a questo grave rischio, c’è davvero da augurarsi che la politica italiana sappia individuare nella democrazia — nella potenza delle sue passioni e dei suoi progetti — l’antidoto sia alla propria incertezza sia alle demagogiche certezze del populismo.
La Repubblica 10.09.12
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