Chi, magari condizionato dal clima pre elettorale, si concentra unicamente sui temi italiani, rischia di cogliere solo i richiami ai partiti «in crisi». Che Giorgio Napolitano descrive con molta severità. Cioè «sempre meno autorevoli», penalizzati da «un pesante impoverimento ideale», a rischio di «uno scivolamento verso forme di degenerazione morale», foglie al vento davanti alle diverse «pulsioni populiste». Partiti ai quali chiede di cambiare con «più democrazia e meno corruzione» e di uscire da «logiche di mera gestione del potere». Mentre al rinnovamento del Paese «possono contribuire» (e, detto da lui, sembra una piccola svolta) «nuove forme di comunicazione e partecipazione politica». Vale a dire il web, la rete, su cui Grillo — come pure, in Germania, i «piraten» — ha riunito il suo popolo. Può servire, quello strumento, purché «vi si ricorra in modo responsabile e trasparente».
Chi invece va oltre la tentazione (peraltro quasi imposta dalla deriva attuale) di considerare il cortile di casa come l’ombelico del mondo, trova nella «lezione» che il presidente della Repubblica ha tenuto ieri a Mestre una visione larga e anticipatrice, tale da costringerci tutti a guardare più lontano. All’Europa. È questo, per lui, l’orizzonte cui le classi dirigenti devono pensare, uscendo dal vizio di una pericolosa miopia. Questa «la missione» in primo luogo dei partiti, che vorrebbe si impegnassero in una «controffensiva europeista». Così da diventare essi stessi «europeizzati» e quindi in grado di incidere efficacemente nel processo di un’indispensabile costruzione politica dell’Ue, ormai «non più un tabù».
Nel suo ragionamento tutto parte dai ripetuti collassi dell’economia, che hanno messo a nudo le contraddizioni antiche e recenti del nostro sistema. «La politica è in affanno, la politica naviga a vista», avverte entrando subito in tema il capo dello Stato, rivolto alla platea del teatro Toniolo (convocata dalla fondazione intestata a un suo amico scomparso, Gianni Pellicani). È una questione non soltanto italiana, puntualizza. Se non altro perché «le nuove mappe della politica non possono non abbracciare l’Europa nel suo insieme». Ed ecco che, nella densa ricostruzione del presidente, la crisi fa riaffiorare un po’ ovunque scetticismi, smanie disgregatrici e pretese di autosufficienza. Al punto che proprio l’Ue viene indicata da più parti come la discarica di tutti i mali, «il problema», tanto da far reagire larghe fasce dell’opinione pubblica con «profondo disorientamento, con il diffondersi di posizioni di rigetto dell’euro e dell’integrazione europea». Senza che si valuti come la prospettiva di tornare indietro «sarebbe catastrofica, un regredire nel cammino degli ultimi sessant’anni».
Ora, in un simile scenario l’Italia si trova esposta a maggiori rischi di quanto non capiti ad altri Paesi. Diciamo pure doppiamente in crisi, se si valutano anche gli effetti da democrazia malata su cui ci ha bloccati la nostra transizione infinita. E tra gli attori che dovrebbero svolgere un ruolo decisivo in questo passaggio, tra i partiti, Napolitano si chiede «quanto si è guidato e quanto invece si è seguìto… seguìto l’onda degli umori, delle paure, degli interessi particolari, delle tentazioni populiste e nazionalistiche». Per il presidente, insomma, la loro responsabilità maggiore sta nell’incapacità di proporre linee guida e progetti, nell’assenza d’iniziativa — «anche pedagogica» — ciò che si è alla fine tradotto in un drammatico deficit di responsabilità. Di qui «un fattore tra i più gravi di ripiegamento, di immeschinimento, di perdita di autorità della politica».
I partiti, incalza il capo dello Stato, «hanno certamente, e non solo da noi, pagato il prezzo di un impoverimento ideale, come di arroccamenti burocratici, di un infiacchimento della loro vita democratica… e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale». Questa la denuncia, durissima. A partire dalla quale Napolitano elenca alcune richieste. Che è «indispensabile» evadere. «Si dovrà lavorare qui, da noi — e con successo, mi auguro — alla regolamentazione in senso democratico dei partiti secondo l’articolo 49 della Carta, alla revisione del sistema di finanziamento dell’attività politica, al rafforzamento delle normative anticorruzione». Di questo «abbiamo senza dubbio bisogno, perché non può esserci democrazia funzionante o istituzioni rappresentative validamente operanti senza il canale dei partiti politici». L’alternativa è «la demonizzazione dei partiti, il deserto dei partiti». Ma questo, per lui, non porta ad alcuna «nuova e vitale democrazia».
Chiaro che ogni «rinnovamento» della politica dovrà nascere da uno sforzo congiunto maturato anche a livello europeo. «Abbiamo bisogno di partiti veramente europei, sintonizzati e organizzati su scala continentale», prosegue il presidente. Il quale aggiunge un obliquo messaggio a quegli arruffapopoli che, sull’onda emotiva provocata dalla crisi, fomentano un generale cupio dissolvi. «Rischiano la marginalizzazione e l’irrilevanza quei gruppi e movimenti politici che, in qualsiasi Paese dell’Unione, si rinchiudano in una logica esclusivamente protestataria, preoccupati soltanto di chiamarsi fuori dall’assunzione di comuni responsabilità europee… Vediamo bene questo fenomeno oggi in Italia».
Fin qui la diagnosi di Napolitano, letta soprattutto in chiave interna. Il resto della densa «lezione» (22 cartelle) si focalizza sull’Europa, che conosce bene se non altro per i suoi due mandati a Bruxelles. L’Unione va difesa, dice, rilanciando — anche con una diversa comunicazione ai cittadini — le ragioni ideali che l’hanno tenuta a battesimo. E mettendo in cantiere in tempi stretti una serie di riforme istituzionali. Ad esempio attraverso una «procedura elettorale uniforme» che entri in vigore già nel voto del 2014, «con lo scambio di candidature e la presentazione di capilista unici tra Paese e Paese». O attraverso «l’identificazione tra la figura del presidente del Consiglio europeo e il presidente della commissione, affidandone in prospettiva la scelta agli elettori». Serve, in definitiva, «una controffensiva europeista» che punti a «un’ampia partecipazione di forze giovani, oggi distanti dalla politica in Italia e non solo in Italia». Quella generazione che, scuote la testa dimostrando il suo assillo di sempre, «è il problema più grave che abbiamo».
Il Corriere della Sera 07.06.12