Primum non nocere, “innanzitutto non nuocere”. È uno dei più importanti principi etici della medicina. Uno dei cardini del famoso giuramento di Ippocrate, oggi ripreso da tutti i codici di deontologia medica. Ogni medico, prima di cominciare la professione, giura di tutelare la saluta dei propri pazienti, di far di tutto per alleviarne le sofferenze, e di evitare che corrano rischi eccessivi legati ai trattamenti prescritti. Che fare allora di fronte ad una malattia incurabile, quando la sola speranza sembra essere quella di utilizzare delle terapie ancora sperimentali e incerte? Che dire a dei genitori che, di fronte alla malattia dei propri bambini e ai limiti della medicina, implorano perché si utilizzino le staminali, anche in assenza di una prova certa dei loro benefici, come nel caso di Smeralda, Celeste e Daniele?
La possibilità di accedere o meno alla terapia della Stamina Foundation rappresenta un vero e proprio dilemma etico. Perché nessuna soluzione sembra del tutto soddisfacente se si invocano valori e principi morali universali. Anzi, in questa storia, tutti sembrano aver ragione. Hanno ragione i genitori, che vogliono solo cercare di far qualcosa per i propri figli, che non riescono ad accettare l’ineluttabile, che si attaccano ad ogni speranza. Anche se non può essere dimostrato che queste cure non provocheranno danni ulteriori. Chi potrebbe d’altronde biasimarli? Chi non sarebbe disposto a tutto, trascurando l’analisi del rapporto tra rischi e benefici delle cure, per cercare di salvare il proprio bambino? Non è il principio della sacralità della vita che giustifica la loro scelta. È solo l’amore incondizionato per i propri figli. Che non ha bisogno di nessuna giustificazione etica, come sa bene chi è padre o madre.
Quando si cambia di punto di vista, però, anche chi critica le staminali sembra aver ragione. Perché le evoluzioni della scienza e della medicina
sono possibili solo a condizione di rispettare alla lettera i protocolli di ricerca. Perché un medico non dovrebbe mai far prendere ad un paziente rischi eccessivi. Perché non è giusto alimentare false speranze e illudere la gente.
Chi potrebbe biasimare una postura di questo tipo? Non c’è un’etica della ricerca che si deve rispettare anche quando, a livello individuale, ci si confronta con un dramma? La scelta, in questo caso, si giustifica in nome della deontologia scientifica e medica. Anche se la vulnerabilità della condizione umana dovrebbe spingerci a concettualizzare un’etica che talvolta contraddice la semplice deontologia.
Staminali si. Staminali no. Se si resta su questa alternativa secca, non c’è soluzione al dilemma. Perché è ovvio che ci vuole tanto tempo, tanta pazienza e tante risorse perché la ricerca medica avanzi. E cercare delle scorciatoie, o giocare agli apprendisti stregoni sulla pelle delle persone, non sembra una soluzione eticamente accettabile.
Primum non nocere,
appunto. Eppure, proprio perché la medicina è un’attività umana, si dovrebbe fare attenzione a non assolutizzarne i principi. Albert Camus aveva un giorno confessato che se gli avessero chiesto di scegliere tra la “Giustizia” e sua “madre”, non avrebbe avuto dubbi e avrebbe scelto sua madre. Il che non vuol dire che la giustizia non fosse per lui importante. Al contrario. Ma sacrificare una persona ad un principio è un modo per rendere vano ogni sforzo etico. Ecco perché di fronte a genitori disperati, ci si può chiedere se non valga la pena di dar loro una speranza.
Non in nome di un principio, ma in nome della compassione. Che forse non giustifica in modo rigoroso una scelta, ma serve sempre a capire la situazione drammatica in cui si trovano talvolta le persone, e a cercare una soluzione che ne rispetti l’umanità.
La Repubblica 07.09.12
Pubblicato il 7 Settembre 2012