La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica. Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.
Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.
Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.
Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.
L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.
Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.
La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.
La Stampa 07.09.12
Pubblicato il 7 Settembre 2012