Fare i compiti a casa, passare l´esame, prendere la pagella, temere i sorveglianti: le misure disciplinari adottate nei paesi indebitati della zona euro hanno probabilmente una ragion d´essere, ma colpisce il vocabolario usato dai governanti quando spiegano le proprie funzioni. È il vocabolario delle scuole inferiori, più adatto a scolaretti con grembiule che a statisti responsabili, maturi. Il clima punitivo ti toglie la libertà, perché a quest´età e con l´indole che hai non puoi ritenerti libero fino alla maggiore età che chissà quando verrà, se verrà. Viene in mente la fiaba tedesca di Struwwelpeter (Pierino il Porcospino), dove adulti enormi ti tagliano le dita o t´immergono nell´inchiostro, se disobbedisci.
Lo chiamano commissariamento, perché lo Stato non virtuoso somiglia a un´impresa in amministrazione controllata. Ma siccome le democrazie non sono aziende, meglio parlare di infantilizzazione: dei governi e dei popoli. Non manca neppure il voto di condotta. Permanentemente sospettosi, ininterrottamente diffidenti, i guardiani ogni tanto ti tolgono – giusto il tempo di respirare – il guinzaglio. Ma non senza alzare l´indice e recitare minacciosi l´ossessivo mantra: «Azzardo morale! Azzardo morale!» (lo dicono di solito in inglese, come una volta si sbandierava il latino per azzittire gli allievi). Il che in soldoni vuol dire: «Ti dò una mano, ma lo so che peccherai ancor più, sicuro come sarai che comunque l´aiuto verrà».
L´Unione è oggi questo universo puberale, fatto di maestri e alunni in grembiule, di padroni e servi, di pastori e pecore. Non può essere altrimenti, quando manca un governo federale che sorvegli tutti e corregga squilibri e diseguaglianze fra Stati. Non è l´Europa promessa nel dopoguerra, custode della democrazia e della giustizia sociale oltre che dei conti: istituzione esterna e superiore agli Stati, affinché non prevalga la legge del più potente e bellicoso. L´Europa che ci viene presentata assume il volto di una determinata forma di rigore – contrazione dei redditi, dei diritti sociali – sino a far tutt´uno con tale forma. Ben altro era il disegno iniziale: l´Unione non doveva coincidere con una sola linea, una sola dottrina economica. Sarebbe stata il contenitore, controllato da un comune Parlamento, di una pluralità di linee che gareggiano d´ingegno. L´esperienza, i risultati, il voto dei popoli, avrebbero premiato la linea migliore. Come dice l´economista Domenico Moro, nelle Federazioni compiute (Stati Uniti, Germania, Australia) il default dei singoli Stati o Länder può esser affrontato in vari modi, più o meno soccorrevoli, ma mai diventa questione di vita e di morte per la loro moneta e tanto meno per la Federazione.
Forse questo ha spinto il francese Hollande, ieri nell´incontro con Monti, a dire che la fiducia tornerà se cessano i perenni dubbi sull´euro. E ha spinto Monti a ricordare che «fare i compiti a casa è necessario, ma non sufficiente». L´unione bancaria e il contenimento degli spread sono impegni solennemente presi dai capi europei: vanno onorati. E molto ci si aspetta da Draghi, che giovedì si esprimerà sull´acquisto di bond governativi.
L´Europa politica è ancora da costruire, e c´è urgenza di farla subito, in contemporanea con i «compiti a casa», perché proprio il continuo dilemma esistenziale infuria i mercati. I mercati non temono che il dollaro scompaia, nonostante l´economia Usa sia più malata di quella europea. Temono l´indeterminatezza volontaria dell´Unione, non sanno se cadrà, se resisterà, chi deciderà il suo destino: le fanno pagare un fallimento politico, e solo in subordine economico. Una Federazione, scrive ancora Moro, «consente al diritto e alla politica, e non al mercato, di avere l´ultima parola» (Il Federalista,n. 3, 2011). Uno studio Bce del 2008 lo conferma: nelle Federazioni, i differenziali nei tassi d´interesse di titoli emessi dagli Stati (spread) non scompaiono, ma non toccano le vette europee. È il costo della non-Europa, e non solo delle brutte pagelle nazionali, che ogni cittadino sta pagando.
L´Europa incompiuta non è neppure democratica, perché i popoli, che nelle costituzioni hanno il potere sovrano, tendono a perderlo nell´ibrido spazio comunitario, né nazionale né sovranazionale. Impossibilitati a controllare i controllori, a mandarli a casa se sbagliano, non riescono nemmeno a capire i nuovi equilibri internazionali, l´ineluttabile ascesa di continenti che non sopportano più un modello di sviluppo occidentale fondato sul consumo a credito delle risorse mondiali. Né i Parlamenti nazionali né quello europeo hanno voce in capitolo, e quando i cittadini si esprimono sono chiamati antipolitici o arrabbiati (altro epiteto per minorenni). Un capo di governo – il nostro – è giunto a dire che gli esecutivi sono troppo vincolati dai Parlamenti, e che l´Europa progredisce se non se ne tiene troppo conto (Spiegel, 5-8-12).
I cittadini hanno ancora un rapporto con le costituzioni nazionali, se ne sentono tutelati? Se ne può dubitare, e non stupisce che una Corte costituzionale, quella tedesca, ponga proprio tale quesito. Il 12 settembre sarà lei – solo lei: altrove mancano giudici altrettanto intraprendenti – a dire se i patti anti-crisi dell´Unione (Fiscal compact, Fondo salva-Stati) sono compatibili con la sovranità popolare garantita dalla Carta fondamentale tedesca. La corte di Karlsruhe inforca occhiali solo nazionali ma constata una malattia di tutti noi, seria. Le costituzioni nazionali non sono all´altezza di un´Europa cui son delegate sempre più sovranità, ma cui son negati poteri governativi duraturi e inequivocabili.
Quel che la Corte trascura – ma vedremo la sentenza – è che non vanno cambiate solo le costituzioni nazionali. Va cambiato il Trattato di Lisbona, e trasformato in costituzione autentica. Una costituzione che cominci come quella americana (Noi, popolo degli Stati Uniti…), sancendo l´esistenza di un potere sovranazionale e democraticamente legittimo. Una Costituzione che solo il Parlamento europeo può elaborare, come già avvenne una volta nel 1984. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo-Italia, ammonisce giustamente i capi d´Europa: la decisione presa a giugno dai governanti, secondo cui la “proprietà” dei trattati è nelle uniche mani degli Stati membri, è «arrogante» e va confutata (L´Unità 29-7). Mario Draghi insiste nel dire che l´unione politica verrà in un secondo momento, perché prioritaria è l´unione economica. Per salvare l´Euro contesta spavaldo il nazionalismo tedesco, (ostile all´acquisto di bond) ma in politica, meno spavaldamente, consiglia pragmatismo, gradualismo, e conclude equiparando l´utopia regressiva nazionalista all´utopia della Federazione («significherebbe alzare troppo l´asticella!», Die Zeit 29-7).
Per quasi mezzo secolo, i demiurghi dell´Unione non hanno alzato l´asticella, pur di non sacrificare sovranità nazionali divenute peraltro fasulle. L´Europa doveva «avanzare mascherata», in chiuse trepide cerchie, come teorizzava Descartes per non incorrere in ecclesiastici anatemi. Quell´epoca è finita, essendo naufragata. Con l´eccezione di Kohl, l´euro senza Stato fu negli anni ´90 una scelta deliberata – Draghi stesso lo ricorda – ed è sfociato nell´odierno sconquasso. Sarebbe assurdo ripetere l´identico errore, disgiungendo l´unione economica da quella politica. Governo europeo, democrazia europea, costituzione europea, fisco europeo, investimenti europei per un´altra crescita sostenibile: tutte queste cose vanno oggi insieme. In tutte le Federazioni si fa così.
Altrimenti ha ragione Giulio Einaudi, che nel ´48 scriveva contro i pragmatici minimalisti europei: «Oggi, che tanti uomini volenterosi si adoperano a promuovere la fondazione degli Stati Uniti d´Europa, uopo è ripetere il monito di trent´anni fa. Non facciamo opera vana e dannosa contentandoci di una semplice unione di Stati sovrani! Meglio sarebbe non farne nulla; ché la unione di Stati sovrani cadrebbe presto nell´impotenza e diverrebbe strumento di discordia e di guerra fra i due grandi colossi i quali incombono dall´Oriente e dall´Occidente sull´Europa». I costi della non-Europa sono troppo alti, perché l´asticella resti bassa nel timore che gli scolaretti si azzardino moralmente a non fare i compiti a casa.
La Repubblica 05.09.12