Nei borghi agricoli della Laconia, derelitta punta sudorientale del Peloponneso di recente guadagnata alle colture intensive, si aggirano frotte di indiani Tamil, neri e nodosi come bastoni. Fanno parte, propriamente parlando, dei lavoratori della Grecia e, nonostante l’aria sperduta, sono gente energica e coraggiosa. Parlano almeno tre lingue (la loro o le loro, un po’ di greco e un più che discreto inglese) e senza tante storie hanno varcato oceani e migliaia di chilometri per venire a cogliere le arance e le olive, a fare tutti quei lavori pesanti ai quali i laconici, pur se attanagliati — si dice — dalla crisi, si negano tuttavia recisamente.
Non è pigrizia quella dei laconici, non è infingardaggine, o, perlomeno, non solo. C’è la memoria, non troppo remota, di un tempo di abbrutimento e fatica inenarrabile; c’è la recente felicità di esserne usciti, di aver conquistato gli agognati simboli del riscatto, solette e piloni di cemento armato, servizi igienici in porcellana, adorati suv giapponesi; c’è il terrore che rimettere mano alle antiche fatiche significhi riprecipitare, per un atroce scherzo della storia, nell’abisso da cui si credeva di essere usciti. È lo stesso meccanismo di rimozione che ha distrutto tanta parte del paesaggio italiano: certo gli speculatori, ma soprattutto l’odio — popolare, diffuso, sincero — per il proprio passato e per i suoi segni, per l’umiliazione secolare che essi rappresentano.
L’Europa non è solo l’Eurotower e l’Europa mediterranea — la Grecia, gran parte dell’Italia, gran parte della Spagna — non è (non è solo?) patria di lazzaroni e cape scariche. È una regione complicata, molto lontana parente (ahimè!) di quel meraviglioso Mediterraneo dell’età di Filippo II, cantato da Braudel. Non sarà un caso se i tre Paesi che vi si affacciano sono stati tutti e tre lacerati nel Novecento da sanguinose guerre civili. E se due di essi, Grecia e Spagna, sono usciti da dittature feroci solo, rispettivamente, nel 1974 e nel 1975. È una regione traballante, di traballante economia e di traballante, perché recentissima, democrazia, minata per di più, nel caso dell’Italia, da una viceversa stabile e solida criminalità organizzata. A medicare questi mali, e prima ancora a spiegarli, non basta certo la contrapposizione, accademica e leziosa, tra un’ Europa della virtù, settentrionale e protestante, e un’Europa del vizio, mediterranea e cattolica (ma anche ortodossa).
Una contrapposizione che è soprattutto falsa. Il problema non è trasformare i laconici o i siciliani o gli andalusi in discepoli di Max Weber, ma di assimilare progressivamente l’Europa mediterranea all’Europa centrale, al cuore storico ed economico dell’Europa, cattolico in grande maggioranza, di cui l’Italia settentrionale o la Catalogna fanno già parte. Esiste insomma una questione meridionale su scala europea, il che mette noi italiani nella singolare posizione di chi ha in materia l’esperienza massima e i massimi fallimenti. Ma se in centocinquanta anni noi la nostra questione meridionale non l’abbiamo risolta, non è che la politica europea degli ultimi vent’anni abbia saputo fare di molto meglio. Ha distribuito, anche generosamente, denaro, ma così facendo ha creato non lavoro, ma illusione di lavoro. Oggi che il lavoro elargito viene meno, rimane il disinganno e d’improvviso agli occhi dei mediterranei l’Europa si trasforma da madre lontana e svagata, ma benefica, in matrigna vigile e crudele.
Il Corriere della Sera 02.09.12
Pubblicato il 2 Settembre 2012