In principio c’è il ragazzo di Tiananmen che balla col carro armato. Chissà chi avrebbe citato se ne avesse mai potuto parlare, in un interrogatorio o un’intervista. Non si scherza, là. Nella “dichiarazione conclusiva” di Maria Alëkhina, una delle tre di Pussy riot condannate a due anni senza condizionale, si citano i nomi di Nikolaj Berdiaev e di Guy Debord. Berdjaev (1874-1948) è il filosofo della libertà cristiano ortodosso, esiliato dai bolscevichi, che si ispirava a Dostoevskij. Debord è il fondatore dell’Internazionale situazionista e il teorico della società dello spettacolo morto (suicida) nel 1994. Sulla maglietta indossata al processo da Nadezhda Tolokonnikova c’è un pugno chiuso e la scritta “NO PASARAN!”, che le viene dalla Spagna di Dolores Ibarruri. La famosa canzone cantata e ballata nella cattedrale del Cristo Salvatore lo scorso 21 febbraio, in piena campagna per la rielezione di Putin, dice: «Madre di Dio, Vergine, diventa femminista… Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin».
Parole e gesta (un’orgia inscenata anni fa all’istituto di biologia, un eterodosso impiego sessuale di un pollo congelato in un supermercato) mostrano un eclettismo piuttosto spinto: anarchismo, surrealismo e soprattutto femminismo. Pussy riot significa la rivolta della fica. Quando si chiamavano banalmente Voina (guerra), avevano disegnato un gigantesco pene bianco sul fondo di un ponte levatoio a San Pietroburgo: il ponte si sollevava, il pene faceva altrettanto. (La rivista Internazionale ospita un dossier sulle “cattive ragazze”). Il nudismo del movimento Femen era nato a sua volta dalla denuncia della prostituzione e del turismo sessuale in Ucraina. Il proposito di mostrare per queste vie che l’imperatore è nudo esige un imperatore, e povero di senso del ridicolo: qualità che abbondano nell’Europa già sovietica. Ancora in Russia, alle restrizioni alla libertà di manifestare disposte da Putin, analoghe a quelle nel Quebec canadese che da mesi agitano Montreal, si era risposto sparpagliando pupazzetti anti-Putin.
A luglio una coppia di pubblicitari svedesi noleggia un aereo a elica, viola le difese della Bielorussia e paracaduta sul paese del satrapo Lukashenko orsacchiotti di peluche che intre
vocano la libertà di parola. A distanza di un mese, Lukashenko congeda due generali della sua aereonautica, arresta dei suoi concittadini quali complici, e rompe i rapporti diplomatici con la Svezia. Storie che si ripetono. Nel 1987 un tedesco di 19 anni, Mathias Rust, atterrò col suo aeroplanino, eludendo i radar sovietici, sul selciato della Piazza Rossa a Mosca. Licenziato il ministro della difesa, Gorbaciov graziò il giovane avventurista. Lo slogan era già quello: Una risata vi seppellirà. Un risotto, anche: anni dopo Rust aprì un ristorante nella Piazza Rossa, e Putin è diventato un baciapile di Madre Chiesa. Nel folgorante resoconto di Julia Ioffe sul processo alle tre ragazze si leggono citazioni degne dei processi alle streghe, quelli classici e quelli staliniani, salvo che qui è il tribunale di stato della Russia di Putin (e del Kgb) ad accusare di aver «tentato di sminuire secoli di dogmi riconosciuti e venerati».
Una coincidenza di tempi ha fatto accostare la condanna di Mosca alla sorte di Assange, che dal balcone dell’ambasciata equadoregna non ha fatto mancare la sua solidarietà alle
giovani donne. È una trama curiosa, dal momento che addosso ad Assange si è cucita, chissà con quale fondamento, l’accusa di violenza sessuale nella Svezia degli orsacchiotti che ha mandato a quel paese le proteste del despota bielorusso. C’è una differenza di taglia fra i due fenomeni, come fra un’industria e un artigianato, ambedue mediaticamente sapienti.
Si è sempre ansiosi di riconoscere nuovi modi di lotta e annunciare ultime notizie. Più di mezzo secolo fa Eric J. Hobsbawm studiava, a partire dai “ribelli primitivi”, lo svolgimento della rivolta sociale che avrebbe portato ai rivoluzionari e al movimento operaio. I ribelli di oggi sono all’altro capo di quella parabola, una postistoria di quella preistoria, anche quando, come Tolokonnikova, salutano a pugno chiuso. Diffido un po’ degli annunci ricorrenti sull’invenzione di “nuove e creative forme di lotta”. San Francesco era andato molto avanti su questa strada, e anche i milanesi che fecero lo sciopero del fumo contro Radetzky nel 1848. Però questa impronta femminista è un’altra cosa, tanto più se la si confronti con un connotato originario delle ribellioni del Vicino Oriente, dall’Egitto allo Yemen (poi tradito e castigato), o con lo sciopero del sesso appena proclamato dalle donne del Togo contro il presidente Gnassinbe, sulla scorta dell’esperienza liberiana del 2003. Le Pussy riot della cattedrale di Cristo Salvatore che chiedono alla Madonna di diventare femminista mettono insieme rivoluzione proletaria e futurismo e suffragette. La loro dissacrazione ha bisogno della dittatura, e del suo corredo di imbecillità e di ipocrisia. Le due ultime abbondano anche in democrazia, e specialmente da noi, ma la prima manca al punto di rendere ormai irrilevante un seno nudo o una crocifissione femminile (la copertina dell’Espresso risale al 1975). L’ironia è una buona idea, come diceva Gandhi della democrazia, ma ci vorrà tempo, e intanto in Siria si massacra, e in Sardegna ci si butta in mare davanti alla prua di un traghetto, o si scende nel fondo di una miniera. Le lotte nella nostra parte di mondo sono “nuove”, in gran parte: ma assomigliano tanto a quelle dei detenuti di tanti anni fa. Salgono sui tetti.
La Repubblica 30.08.12