La chiamano polveriera Sulcis, minatori e operai disposti a fare «gesti pazzi» per difendere dignità e posti di lavoro. Una bomba sociale tutt’altro che inattesa. In questo scorcio di Sardegna ruvida, nella latitanza di istituzioni e programmazione economica sta infatti collassando quel che resta dell’industrializzazione forzata: la riconversione flop dopo la fine delle attività estrattive di metà Anni 90; la filiera dell’alluminio di Portovesme incardinata intorno ad Alcoa, il gigante americano che in mancanza di offerte di subentro il 3 settembre avvierà lo spegnimento degli impianti; e adesso le proteste in Carbosulcis, l’ultima società carbonifera in produzione. Nel 1995 Eni l’aveva ceduta alla Regione che ogni anno spende parecchi milioni per mantenere le attività estrattive. Costretta da Bruxelles alla privatizzazione per evitare l’infrazione «aiuti di stato», ha bisogno del via libera (e dei finanziamenti) al progetto di produzione di energia a basse emissioni di CO , altrimenti nessun gruppo troverà conveniente investirci dei soldi, garantendo l’occupazione ai 463 dipendenti.
Ma bisogna tornare al 1993 per capire lo sfacelo di oggi, quando al tramonto dello stato imprenditore le grandi miniere (San Giovanni, Campo Pisano, Monteponi, Masua) vengono chiuse per ragioni di costo. Governo di Roma e Regione Sardegna firmano un accordo di programma per riconvertire l’area di Carbonia e Iglesias. Anche tra i minatori alla fine vince la linea favorevole all’uscita dello Stato dalla siderurgia: dare una prospettiva ai propri figli vale il sacrificio del posto.
Peccato che le promesse di allora siano state tradite. Niente centrale termoelettrica, niente collegamenti ferroviari, niente nuove banchine a Portovesme. Persino sulla cinquantina di iniziative incentivate (fabbriche di cd, carte magnetiche, biciclette, laminati) in vent’anni si è visto quasi nulla. Ogni minatore portava in dote 50 milioni di lire: li hanno assunti, e pochi mesi dopo troppi capitalisti di rapina sono scappati con la borsa dei soldi. Nel frattempo il polo di Portovesme, nato come sbocco industriale dell’attività estrattiva, viene privatizzato. In Sardegna arrivano le multinazionali. Sembra l’avvio di un’epoca d’oro, capace di compensare la chiusura delle miniere. Sarà un altro fuoco di paglia. Eurallumina, controllata dal colosso Rusal, è ferma dal 2009 per gli alti costi dell’energia: i suoi 330 dipendenti sono in cassa integrazione. Il gigante Alcoa (500 dipendenti, 900 con il primo indotto) è invece rimasto sull’isola finché il governo ha garantito un prezzo dell’energia calmierato, risparmiando in 15 anni 2 miliardi. Ma appena l’Ue ha sanzionato Roma, ecco che decide di tagliare la corda. La stessa Ex Ila (laminati di alluminio), dopo 4 anni di fermo, pochi mesi fa ha trovato un acquirente (un imprenditore di Iglesias), ma non ci sarà futuro per i suoi 200 addetti se Alcoa non verrà rimpiazzata.
E’ una questione di filiera. Per anni Eurallumina ha venduto alla multinazionale americana per il suo ciclo produttivo, alimentato grazie all’energia fornitagli da Enel, a sua volta acquirente di carbone dalla Carbosulcis: se s’interrompe il ciclo integrato dell’alluminio, che ne sarà dei 5 mila occupati del polo industriale in una delle province più povere d’Italia? Non è un caso che le proteste in Carbosulcis scoppino ora: quando un territorio è senza sbocchi alternativi, quando non ci sono politiche di sviluppo, difendere il proprio posto di lavoro diventa questione di vita o di morte.
Al dramma locale si somma poi un’urgenza nazionale, che investe il futuro industriale del paese. L’Italia manifatturiera vuol restare nelle produzioni di base (chimica, acciaio, carta, vetro, alluminio) oppure lasciare i trasformatori «padani» in balia dei colossi cinesi? E’ questa la domanda di politica industriale che arriva da posti come il Sulcis e, in fondo, da vicende drammatiche come quelle tarantine dell’Ilva. L’industria pesante energivora beneficia di tariffe agevolate in tutto il mondo. Si sa ad esempio che gli svizzeri di Glencore sono interessati a rilevare lo stabilimento Alcoa, a patto che le istituzioni garantiscano competitività sui fattori di costo energetico come avviene in Francia e Germania. Altrimenti l’Italia è destinata a perdere altri pezzi di industria, senza il beneficio di piani di riconversione efficaci. Trasformando i territori in tanti piccoli Sulcis.
La Stampa 30.08.12
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“NAPOLITANO AI MINATORI: STO CON VOI”, di Giuseppe Vespo
Le sue parole arrivano alla fine del quarto giorno di lotta a quattrocento metri di profondità. Giorgio Napolitano segue con «apprensione» la protesta della Carbonsulcis e vuole che i lavoratori sentano la sua vicinanza: «Vorrei che i minatori del Sulcis, impegnati in una prova durissima, sapessero come mi senta profondamente partecipe della loro condizione e delle loro ansie», scrive il presidente della Repubblica in un messaggio che viene reso noto in serata. IL SULCIS senza lavoro «La loro storia – continua il Capo dello Stato – è parte integrante della storia del lavoro in Sardegna ed è espressione specialissima di attaccamento alla loro terra e di impegno umano e professionale, anche nelle condizioni più pesanti, nell’interesse generale della Regione e del Paese. Capisco perciò fino in fondo la volontà di lotta che manifestano per una causa di vitale importanza per ciascuno di essi e per le loro famiglie». Napolitano ha ben presente la situazione dell’isola, che forse soffre più delle altre Regioni il peso della crisi economica arrivata ormai al quinto anno. «In occasione della mia visita in Sardegna lo scorso febbraio, e incontrando i lavoratori di tutte le aziende a rischio – si legge nel messaggio – rilevai pubblicamente come la Sardegna sia stata colpita da una crisi che investe più che in qualsiasi regione un intero assetto produttivo e occupazionale. Di qui la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di sviluppo seguite nel passato e di rilancio su basi nuove e più solide dell’economia regionale». Adesso l’attesa – anche quella del presidente – è per l’incontro di domani al ministero dello Sviluppo economico: «Ritengo che debba costituire un’occasione di bilancio delle verifiche e delle esplorazioni già compiute – scrive Napolitano – e dare prime risposte che possano trasmettere serenità e fiducia in un momento così drammatico specie per i lavoratori raccoltisi nella profondità della miniera». «Nello stesso tempo – conclude – sono sicuro che non mancherà da parte di nessuno, e tanto meno da parte delle forze del lavoro in Sardegna, la realistica e coraggiosa consapevolezza dell’esigenza di trovare per i problemi così acutamente aperti soluzioni sostenibili dal punto di vista della finanza pubblica e della competitività internazionale in un mondo radicalmente cambiato rispetto a quello di decenni orsono». È su quest’ultimo concetto che si concentra il dibattito politico e sindacale. Il governo per bocca del sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, ritiene la riconversione della miniera di Nuraxi Figus per lo stoccaggio nel sottosuolo dell’anidride carbonica e la produzione di energia pulita, un progetto che «non sta in piedi». L’esecutivo, dice De Vincenti, punta invece ad un piano «per andare oltre l’attività estrattiva». In ogni caso «nessun lavoratore sarà abbandonato a se stesso». Parole che non sono piaciute ai sindacati, alcuni dei quali convinti invece che il progetto «Zero Emissioni» possa funzionare. Tra questi la Cisl di Raffaele Bonanni, che ritiene che «si possa costruire nel Sulcis un nuovo polo dell’energia pulita purché ci sia l’impegno dello Stato». Sulla stessa linea anche Luigi Angeletti, segretario Uil, secondo cui «la protesta dei minatori è giusta perché c’è un progetto per la produzione di energia elettrica a basso costo». Mentre Susanna Camusso, leader Cgil, riferendosi al minatore che ieri si è ferito al polso, avverte che l’assenza di lavoro «è il vero dramma del Paese». Sul fronte politico, per il Pd interviene il senatore Francesco Ferrante, che punta il dito contro «la classe politica incapace che per anni ha rappresentato quei lavoratori e che ora sembra prenderli in giro. La conversione andava fatta anni fa».
L’Unità 30.08.12