Gli attacchi a Napolitano, le dispute su Togliatti, gli insulti di Grillo, i giovani contro i vecchi: vor-rei solo attirare l’attenzione dei democratici (quali che siano le loro differenziazioni) sul contesto. Ovvero su quali interrogativi pesano oggi sul destino del Paese. Io non sono pessimista ma ho l’impressione che la partita delle prossime elezioni sia un po’ più complicata di una normale alternanza tra una destra in crisi e una sinistra con la vittoria in tasca. Gli equilibri politici sono incerti e tutti in movimento. Su di essi pesano molte incognite, a cominciare dal fatto che le cose non si decidano solo in Italia, ma dipendono da fattori globali e da una lotta feroce tra grandi potentati intorno agli assetti dell’Europa e del mondo. Chi comanda? C’è un Fondo di investimenti americano, il quale da solo muove una massa di capitali pari a tutta la ricchezza che gli italiani producono in un anno. Ecco perché deve preoccupare molto la debolezza del nostro sistema politico, anche se io misuro su questo stesso scenario con un certo orgoglio il ruolo del Pd. Il quale cerca di fare da perno di uno schieramento in grado non solo di vincere per sé ma di difendere la democrazia e il regime parlamentare. Essendo questo la sola alternativa democratica al populismo e al ritorno in campo di nuovi capi carismatici.
È questo lo scenario (non dimentichiamolo) nel quale il Pd si candida a governare l’Italia. Con quale proposta? Quella di Bersani mi sembra chiara. Una alleanza non tattica tra le forze riformiste che vengono dalla lunga storia di lotte, e al tempo stesso di responsabilità democratica e nazionale delle sinistre di stampo cattolico e socialista, con forze moderate e con un vasto mondo che viene dall’Italia profonda dell’impresa, del lavoro, dell’intelligenza creativa, delle professioni. Un nuovo blocco non solo politico, ma sociale. Con un obiettivo altrettanto chiaro: riformare profondamente l’Italia nel senso di ricostruire questo Paese ponendo il suo sviluppo su basi più larghe. Basi sociali ma anche territoriali (il Mezzogiorno) e soprattutto etico-politiche. Il che però presuppone – diciamolo chiaro – partiti diversi dagli attuali. Molto diversi. Allora che cosa manca alla proposta di Bersani? Manca ancora, io direi, almeno in parte proprio questo: la percezione della grande radicale diversità del soggetto politico che si propone come guida e che afferma non solo una politica ma una sua visione delle cose. Una forza che non è solo un elettorato ma una comunità di cittadini che crede in certi valori e ha il sentimento di un comune destino. Forse la mia riserva è ingenerosa ed è inopportuna. Ma io guardo allo smarrimento che c’è soprattutto tra i giovani e voglio reagire.
Questa estate si è parlato molto di De Gasperi e di Togliatti. Però tranne qualche eccezione (Gianni Cuperlo) non mi pare che si sia detto con sufficiente chiarezza che dati i cambiamenti del mondo (una cesura epocale da allora anche antropologica, un’altra epoca storica) il loro insegnamento ancora vivente consiste solo in ciò: nel fatto che di colpo essi aprivano una pagina nuova. Fecero vedere a noi giovani le enormi novità delle cose. I loro disegni erano molto diversi, ma essi voltavano pagina. Parlavano addirittura un’altra lingua. Una lingua nuova, mai sentita fino allora. Usavano altre parole. Davano nome alle cose, alle grandi cose che stavano accadendo. L’Italia era coperta di macerie ma la speranza rinasceva non perché De Gasperi o Togliatti fossero più giovani di Mussolini, ma perché ciò che cambiava era il fatto che l’individuo anonimo e significante diventava una persona. Era la fondazione di una nuova democrazia.
Torno così all’oggi. All’estremo bisogno che abbiamo di un rinnovamento di classe dirigente. Il che comporta però la risposta a una domanda cruciale su che cosa possa fondarsi nella situazione storica di oggi la nascita di questa classe dirigente nuova. Su che cosa? Vi prego di credermi. Non si tratta del ricambio delle cariche pubbliche. Credetemi: è penosa questa disputa tra vecchi (sessanta anni e passa) e giovani (quaranta anni e passa) su come distribuire i mandati parlamentari e financo i futuri ministeri. È avvilente.
È da anni che siamo di fronte a una crisi devastante non solo dell’economia ma della democrazia a livello mondiale, tale da mettere in discussione perfino il diritto delle persone a non ridursi a variabile dipendente da un gioco di borsa. Come non si capisce che è semplicemente vitale il bisogno che ritorni in campo la forza, la creatività, il potere delle politica? Però della grande politica che si misura col fatto essenziale e cioè col fatto che il capitalismo finanziario è alla fine del suo percorso. La crisi dura ormai da cinque anni, ma nessuno dice ancora come se ne esce.
È semplicemente anacronistica questa disputa italiana su governi tecnici o politici. È evidente che la soluzione potrà venire solo dalla politica, essendo il tema dello scontro ridotto all’osso semplicemente questo: come ridurre lo strapotere della finanza. Un evidente problema politico, di potere. Come dimostra la lotta feroce intorno alla costruzione di un’Europa politica. Un difficile passaggio storico che richiede quella che è la vocazione essenziale della politica, cioè la capacità di ridefinire il rapporto tra economia e società, tra soggettività individuale e beni comuni, tra vecchi partiti e nuovi bisogni associativi. Io non chiedo più sinistra, penso anzi che la vecchia cultura della sinistra storica sia fuori gioco. Siamo di fronte a fenomeni grandiosi che hanno cambiato il mondo, hanno raddoppiato in venti anni il Pil mondiale, hanno ampliato i confini dello sviluppo umano e moltiplicato lo spazio per l’iniziativa individuale al tempo stesso. Al tempo stesso il mondo è stato inondato di debiti e l’economia di carta si è mangiata le cose, il lavoro, l’industria, i diritti sociali il sentirsi parte di una società, responsabili di un destino comune. Ma tutte queste cose non si cambiano con uno sciopero generale o un colpo di Stato. Occorre ridefinire il rapporto tra economia e società. La tragedia più grande è che l’economia del debito ha scaricato sui giovani tutti i prezzi di questo sistema, ha tolto loro il futuro, ha creato un’Europa di vecchi, ha determinato una frattura drammatica mai vista prima tra generazioni. Che concretezza c’è nel discutere di pensioni se alla gente non è chiaro questo scenario. Ai giovani parlerei così. Le ambizioni vanno benissimo ma che esse siano all’altezza della situazione.
L’Unità 29.08.12