Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray: grande teorica della differenza sessuale, psicoanalista per quanto critica di Freud e soprattutto di Lacan, direttrice di ricerca in filosofia presso il Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi. Nella sua formazione multidisciplinare, non solo la linguistica ha avuto un ruolo fondamentale, ma anche lo yoga che pratica da più di trent’anni: s’intitola Una nuova cultura dell’energia un saggio uscito l’anno scorso da Bollati Boringhieri, l’editore italiano di tutti i suoi libri principali. Tanti, e alcuni di gran successo come quell’Amo a te dedicato a sorpresa a Renzo Imbeni.
Se però le chiedi cosa può aver significato nella sua vita il sindaco di Bologna, agli inizi degli anni Novanta, la risposta avrà tutt’altro che un carattere personale. Perché lei si esprime così: «Ho voluto dare un esempio di relazione sessuata civile, rispettosa sia dell’uomo che della donna. Volevo insegnare, ai giovani in particolare, che per vivere anche carnalmente una relazione amorosa, è indispensabile passare attraverso un atteggiamento civile. Inoltre un uomo politico che pretende di essere un democratico deve mostrarsi capace di un comportamento corretto verso una donna, una modalità che deve essere reciproca… Ho indicato per iscritto, e nelle numerose presentazioni del libro fatte insieme, i diversi mezzi per raggiungere quest’atteggiamento civile che sia sessuato, non sedicente neutro ma conforme alla nostra identità reale».
Più o meno tutti sappiamo chi è Luce Irigaray, dell’importanza che assegna all’amore, eppure ignoriamo tutto delle sue scelte sentimentali. Ha un riserbo talmente radicale da somigliare anche un po’ a una civetteria. Per esempio, è difficile negare che sia nata in Belgio, dove ha preso una prima laurea in Filosofia all’università di Lovanio («Belga? Io sono francese! », dice lei…). Ma sarà nata nel maggio del 1930, come si legge ovunque? «Quella data, le assicuro che è sbagliata. La data giusta si saprà solo quando sarò morta…». Va bene, signora Irigaray, ma non se la prenda così a cuore con l’anagrafe e con quei cialtroni di Wikipedia.
In un’intervista sull’amore, non dovrebbe essere vietato chiedere qualcosa sul modo in cui si declinano e si vivono i sentimenti. Lei però non ha mai voluto parlare di sé… Non crede che una qualche conoscenza della sua vita privata la renderebbe più “umana”, senza sminuirne il ruolo intellettuale?
«So che è di moda raccontarsi, cosa che si può spiegare nel solco di una tradizione che ha mirato a un’esistenza ideale piuttosto che alla nostra vita quotidiana. Non ritengo però che la mia vicenda personale possa realmente interessare gli altri. Cerco piuttosto di partire dalle mie esperienze e di tradurle a un livello condivisibile. Inoltre nella mia vita sono coinvolte altre persone e non mi sembra opportuno svelare qualcosa di loro. Altro punto importante: i sentimenti hanno bisogno di riservatezza, di segretezza, l’intimità
esclude la dimensione pubblica. Potrei anche aggiungere che troppo spesso le donne sono state ridotte alla dimensione affettiva o erotica: un motivo in più per mantenere nascosta la mia vita privata».
Alla lettura dei suoi libri, l’amore risulta un’esperienza cruciale non solo per le persone, ma per la cultura e la politica. Può dire in breve perché?
«Vede, la nostra tradizione si è troppo preoccupata della vita relazionale, del modo in cui ci riferiamo a noi stessi, al mondo, all’altro o agli altri. Ora è forse proprio la maniera di vivere queste relazioni che può distinguerci dagli altri esseri viventi, al livello delle relazioni amorose ma anche delle relazioni pubbliche. Siamo ben lontani da una pratica adeguata della nostra vita relazionale e spesso ci comportiamo in modo peggiore degli animali… Penso che sviluppare una cultura dell’amore possa contribuire al divenire dell’umanità in quanto tale, per non parlare della realizzazione di una democrazia che non si limiti a problemi di danaro. Per di più, praticare l’amore corrisponde al modo d’incarnare il divino, secondo la tradizione cristiana prevalente nell’Occidente».
Amo a te, è il suo libro più celebre. Come a dire: non amo te in una condizione speculare, ma amo “a te”, un altro radicalmente diverso da me… «Il successo di Amo a te
indica la necessità di questo discorso, che ho continuato a sviluppare in altri miei libri più recenti come La via dell’amore e Condividere il mondo.
Ovviamente l’amore non può rimanere un affetto solo immediato e quasi istintivo. La lettera “a” di Amo a te ricorda il lavoro necessario che richiede l’amore per rivolgersi realmente all’altro. Significa che prima di poter dire “ti amo” è indispensabile soffermarsi a considerare chi è l’altro, senza sottomettersi o sottometterlo solo ai propri impulsi. Vuol dire:
amo “a” ciò e “a” chi tu sei, e cerco di creare una relazione d’amore con te in quanto persona e non solo in quanto oggetto o supporto dei miei sentimenti personali».
Dal possesso dell’altro al rispetto dell’altro, senza perdere la propria identità… Bisogna imparare ad amare, ma questa lezione come e dove si apprende? Può aiutare l’analisi?
«Senza dubbio, l’amore si deve imparare. Sarebbe l’insegnamento scolastico più importante fra tutte le materie in programma, e non a caso suscita un grande interesse da parte dei bambini, degli adolescenti e anche degli adulti – come ho verificato nelle esperienze condotte nelle scuole italiane. Ma i punti principali da insegnare non sono gli stessi per i maschi e le femmine: i primi spesso trasformano in oggetto la persona che amano, mentre le seconde hanno la tendenza a un atteggiamento fusionale con l’altro. Ciascuno deve dunque imparare in modo diverso a rispettare l’alterità dell’altro, la sua trascendenza, direi, per poter amare. Sono necessari altri gesti e parole, rispetto a quelli che ci sono consueti… Quanto alla psicoanalisi, se può aiutare a una presa di coscienza di ciò che proiettiamo di noi stessi sull’altro, temo che non si sia interrogata abbastanza sulle carenze della nostra cultura riguardo lo sviluppo e la condivisione dell’amore».
Attraverso la pratica dello yoga, nella sua accezione più spirituale, non esclude la possibilità di trasformare ognuno di noi in un ponte tra Oriente e Occidente… Ma c’è davvero un rapporto tra la capacità di respirare e la possibilità di amare?
«La nostra cultura troppo spesso ha fatto dell’amore un imperativo morale o religioso e non il mezzo e il luogo più determinanti perché l’umanità possa sbocciare. È accaduto perché non ci siamo abbastanza preoccupati di coltivare la vita, anzitutto la nostra vita umana, a cominciare dalla linfa che l’alimenta, che le permette di crescere e di fiorire. Questa linfa risulta da un’energia al contempo naturale e spirituale che si acquista proprio mediante la coltivazione consapevole del respiro… A me lo yoga ha senz’altro rivelato un modo di amare che la tradizione occidentale non mi aveva insegnato. Incrociare una cultura del respiro con una cultura dell’amore sarebbe una pratica davvero utile per un’evoluzione positiva dell’umanità ».
La Repubblica 28.08.12
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