Un mese fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia. «Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori», si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici.
Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica? Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.
Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard. Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.
Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.
Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, «intender non le può chi non le prova».
È ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.
Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio. Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. È per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.
La Repubblica 28.08.12
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“La fabbrica Francia”, di ANAIS GINORI
Nella storia di questo premio inventato nel 1936, gli studiosi francesi hanno conquistato il venti per cento delle medaglie, al secondo posto dopo gli americani. Qualche giorno fa, un altro importante riconoscimento internazionale, il Prix Henri Poincaré, è stato assegnato per la prima volta a due donne, Sylvia Serfaty e Nalini Anantharaman, entrambi ricercatrici al Cnrs, il
centro nazionale di ricerca. Negli ultimi mesi, ha calcolato con orgoglio sciovinista Le Monde,
i francesi si sono accaparrati cinque dei dodici premi della società europea di matematica per i ricercatori di meno di 35 anni.
La Francia è il paese dei numeri primi. I libri ludici intorno ai misteri dell’algebra o alla geometria diventano bestseller. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento. È il paese che ha inventato il campionato mondiale di logica e matematica che si è disputato qualche giorno fa nel palazzo parigino dell’Unesco. La matematica piace tanto che Fondazione Cartier ha persino allestito una mostra dedicata all’estetica che si cela dietro
a formule, teoremi, equazioni. Lo scienziato pazzo e scorbutico? È un cliché superato. Personaggi come Cédric Villani o Stella Baruk, autrice di manuali alternativi per insegnare ai bambini, sono delle “mathstar”, un po’ come nell’architettura esistono le “archistar”.
Nonostante la concorrenza dei paesi emergenti e il saldo primato statunitense, a Parigi lavorano in pianta stabile oltre mille ricercatori di questa disciplina. «È la più alta concentrazione in una sola città, neanche gli americani ci battono» racconta soddisfatto Jean-Yves Chemin, direttore della fondazione di scienze matematiche di Parigi che riunisce i migliori centri di ricerca e università della capitale.
Il segreto di questo record è presto svelato. Per scoprirlo basta andare nel quinto arrondissement, in rue d’Ulm, sede dell’Ecole Normale Supérieure, fondata nel 1794 da Napoleone, affiliata all’epoca con la Normale di Pisa. L’istituto, che tutti chiamano semplicemente
«Normale Sup», ha il record mondiale di studenti con medaglie Fields. La sua particolarità è riunire insegnamenti letterari e scientifici. Qui ha studiato il biologo Louis Pasteur ma anche i filosofi Jean-Paul Sartre e Michel Foucault. «Normale Sup» ha anche sfornato cinque premi Nobel per la Fisica.
Un livello di eccellenza mantenuto fino ad oggi. L’Ens che ha aperto altre due sedi a Lione e Cachan, è uno dei pochi atenei francesi che trova posto nella classifica internazionale di
Shangai sulle migliori università. Un sistema che si basa sull’alta selezione dei futuri cervelloni già nei licei scientifici, poi nelle “classes préparatoires”, almeno due anni di preparazione per accedere al concorso d’ingresso all’Ens. “L’altro punto di fondamentale – continua Chemin – è il finanziamento dei giovani ricercatori”. Il “brain drain” è molto ridotto, meno del 3% degli studenti che si sono specializzati in Francia sono costretti a valicare il confine per trovare un posto di lavoro. Al contrario, molti matematici transalpini arrivano dall’estero. Il vietnamita Ngo Bao Chau, che ha vinto il premio Fields nel 2010, ha studiato in Francia. All’Institut des Hautes Etudes Scientifiques, tre dei cinque insegnanti titolari di cattedra sono di origine straniera. I campi di ricerca si sono anche molto modernizzati, dalla nanomedicina alle previsioni meteo, dagli algoritmi per l’alta finanza fino ai navigatori satellitari. Non è un caso insomma che il presidente François Hollande si sia vantato degli ultimi riconoscimenti internazionali ottenuti.
Una tradizione che risale idealmente al secolo dei Lumières con personaggi appassionati di matematica come Jean D’Alembert, Gaspard Monge, Joseph Fourrier. C’è stato anche il gruppo Bourbaki che a partire dal 1935 ha rivoluzionato il modo di scrivere la matematica e al quale hanno partecipato cinque ricercatori premiati con le medaglie Fields. Quest’anno ricorre il centenario di Henri Poincaré, matematico ma anche fisico, ingegnere, filosofo. «Incarna una rara sintesi tra i vari rami della disciplina, è stato uno degli ultimi matematici universali” racconta Cédric Villani, direttore dell’istituto dedicato all’insigne scienziato morto nel 1912 e che diede un contributo all’elaborazione della teoria della relatività. Guardato con sospetto dai colleghi più seriosi, Villani è convinto che il posto del matematico sia dentro alla società. «Dobbiamo svecchiare la nostra immagine».
Uno spirito divulgativo che si ritrova anche nei libri di Jean-Paul Delahaye, autore di volumi come Stupefacenti numeri primi, Affascinante Pi greco.
Stella Baruk è chiamata invece la “fata della matematica”. La scienziata di origine iraniana ha inventato una nuova tecnica di insegnamento del calcolo fondata sull’uso del linguaggio. Baruk fa spesso l’esempio di un problema proposto in classe. «Ci sono 4 file, ognuna con 7 tavoli. Quanti anni ha la maestra?». Molti bambini rispondono 28, facendo automaticamente la moltiplicazione, senza neanche pensare al senso della frase e alla domanda non consequenziale. Il “metodo Baruk”, che prevede anche la valorizzazione dell’errore come strumento conoscitivo, è stato applicato in molte scuole di banlieue, con sorprendenti risultati. Lo scrittore Daniel Pennac, anche lui insegnante, lo ha spesso consigliato agli alunni in difficoltà.
Le polemiche sulla didattica da usare risorgono continuamente. La Francia ha più volte rivoluzionato il metodo di insegnamento della matematica. Nel record delle medaglie Fields, delle “mathstar” e di tutta questa curiosità per i misteri della matematica, si nasconde infatti un paradosso. Il livello medio degli alunni francesi è in progressivo calo e le ore insegnate sono diminuite negli ultimi quindici anni. «Purtroppo la natura elitista del nostro sistema non ricade sulla maggioranza » ha notato Le Monde in un editoriale. Qualche anno fa è stata lanciata la petizione “Sauvons les maths!”, salviamo la matematica, proprio perché nei nuovi programmi c’era stata un’ulteriore decurtazione della materia. Un problema che non hanno avuto le migliaia di appassionati che si ritrovano nei giorni scorsi a Parigi per il campionati internazionali di giochi matematici. La competizione, rivolta a studenti ma anche ad adulti, è stata inventata proprio dai francesi venticinque anni fa.
La Repubblica 28.08.12