Non sempre il progresso giova alle donne. La Tunisia ne ha offerto da poco un infelice esempio. Grazie al Codice del 1956 e a successive riforme, rappresentava un ammirato precursore dell’emancipazione femminile tra i Paesi arabi. E il nuovo corso tunisino è stato considerato il più assennato tra quelli scaturiti dalla Primavera araba. I risultati elettorali del 2011 non hanno premiato i partiti laici moderati, ma i rischi di chiusure islamiste parevano evitabili. Purtroppo la Commissione «Diritti e libertà» dell’Assembla Costituente tunisina, in disinvolta contraddizione con il proprio titolo, ha approvato un nuovo articolo 28 che retrocede le donne. Afferma infatti: «Lo Stato assicura la protezione dei diritti della donna», un’affermazione positiva solo all’apparenza; secondo Roberta Aluffi, studiosa di diritto delle religioni, si tratta di una rischiosa espressione islamista perché implica specifici diritti femminili (il dono matrimoniale e il mantenimento), cui potrebbero fare da pendant pesanti diritti maschili (il ripudio e l’obbedienza delle donne di famiglia). L’articolo 28, inoltre, vuole la donna «associata» o «complementare» all’uomo non solo nella sfera familiare, ma anche nella «edificazione della Patria»; quindi, a differenza di quanto normalmente teorizzato da pensatori islamisti, in Tunisia il paternalismo potrebbe toccare anche la sfera pubblica. Manifestazioni anti-articolo 28 hanno coinvolto un buon numero di tunisine indignate. Richiami e proteste sono arrivati da organizzazioni internazionali, in primis il Consiglio d’Europa. La partita non è formalmente chiusa. La nuova Costituzione deve ancora essere approvata in seduta plenaria. L’Assemblea costituente include anche una componente femminile, ma non è chiaro quanto e come inciderà: sebbene eletta con il 50% dei posti in lista riservati alle donne, le rappresentanti sono solo il 24%. Per la quasi totalità appartengono al partito islamista di maggioranza, che sostiene di ispirarsi all’AKP di Erdogan, ma che in commissione ha votato l’articolo 28. In quel contestato articolo si dà pure un contentino ai progressisti perché all’ambigua protezione dei «diritti della donna» si affianca la protezione delle «acquisizioni», cioè di quanto esse hanno finora ottenuto. Quante difenderanno le proprie «acquisizioni» si vedrà nel voto in aula.
Torna, comunque, a farsi sentire quel sapore di dominanza maschile che troppo spesso ha accompagnato svolte istituzionali che parevano positive. La sindrome si è accompagnata al crollo di opprimenti dittature laiche, sostituite però da forme più o meno severe di regimi islamisti. L’autoritario Scià di Persia Reza Palhevi aveva comunque modernizzato il Paese e le sue donne, l’Iran degli ayatollah ha invertito la rotta. L’Afghanistan liberato dai comunisti è tenuto in scacco da talebani misogini.
Siamo dolorosamente abituati all’idea che la sostituzione di regimi autoritari modernizzanti con islamisti al potere possa nuocere alle donne. Dimentichiamo quel che le donne persero nei nuovi Stati di impronta liberale.
La nascita dell’Italia non giovò alle donne del Lombardo-Veneto. In quei territori, veniva applicato, fin dal 1816, il Codice civile austriaco che riconosceva a tutte le donne, mogli incluse, la capacità di agire, cioè di amministrare il patrimonio, stare in giudizio, concludere contratti senza l’autorizzazione del marito o di altri maschi. Al contrario, nel diritto civile del Regno di Sardegna le donne non avevano questo diritto e non lo ottennero con il Codice civile italiano del 1865; quindi le lombarde e le venete «liberate dal giogo austriaco» furono ridotte allo stato di minori, di incapaci. Solo con la riforma liberale del 1919 le maggiorenni italiane diventarono giuridicamente adulte. Ci pensò poi il Fascismo a imporre alle italiane notevoli passi indietro.
Neppure la formazione degli Stati Uniti fu per tutte un guadagno. Ad esempio, la Costituzione del 1776 del New Jersey concedeva il diritto di voto «a tutti gli abitanti», quindi alle donne. Ma è nel 1920, con il XIX emendamento, che tutte le americane diventano pienamente elettrici.
Quindi non solo la storia della democrazia fa passi indietro, ma procede anche a zigzag: acquisisce qualcosa, indipendenza nazionale, libertà per molti, ad esempio, ma perde altro, e quell’altro riguarda troppo spesso le donne.
Oggi si guarda con orrore alla Siria, a una repressione che non trova limiti umanitari. Preoccupa anche il futuro di quel Paese dopo la caduta di Assad. Chiunque abbia visitato la Siria prima della rivolta e del terribile massacro in corso capisce questa preoccupazione. Si poteva cogliere visivamente come quel regime poliziesco e autoritario fosse riuscito ad imporre una convivenza religiosa. Meravigliava la stretta e pacifica contiguità fisica tra chiese delle più diverse confessioni cristiane, la compresenza di moschee di declinazioni musulmane tra loro tradizionalmente ostili. Donne di culture e religioni diverse formavano patchwork opportunamente stridenti, alcune occultate da neri paramenti, altre esibite in più che liberali scollature. Come agire per bloccare il massacro e favorire l’avvento di un nuovo regime non oscurantista? Basta sostenere militarmente le componenti più moderate? Questa strategia per funzionare dovrebbe riuscire a coalizzare moderati, non si sa quanto numerosi, che appartengono a gruppi religiosi diversi, in particolare dovrebbe attrarre i meno integralisti dei sunniti. Infatti, se i democratici risultassero minoritari e isolati, quando si andasse votare, averli sostenuti militarmente sarebbe servito a poco.
Una delle contraddizioni della democrazia sta nel fatto che il demos , il popolo, non è sempre prevalentemente democratico, tollerante e femminista. Il pessimismo in casi come quello siriano è quindi quasi inevitabile, e riguarda molti aspetti. Sono stati finora espressi fondati timori per un futuro di endemici conflitti interreligiosi, di ulteriori scompensi nello scacchiere mediorientale. Dovremmo più spesso pensare alle donne siriane, agli strazi e ai lutti che stanno subendo, alle perdite di dignità e di diritti che potrebbero colpirle in futuro.
La Stampa 28.08.12