La crisi attuale dovrebbe fornire l’occasione per riflettere in maniera schietta sulle cause, sulla portata e sulle conseguenze della crescente diseguaglianza nel mondo, mentre a sua volta, per riprendere l’espressione di Jean-François Lyotard, la “grande narrazione” liberale perde colpi. Oggi la stragrande maggioranza degli economisti è d’accordo nel riconoscere che, se il divario di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo globalmente si è un poco ridotto, è considerevolmente aumentato quello tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri. Da ciò l’apparizione e l’incremento di una grande povertà nei paesi ricchi e di una miseria assoluta nei paesi poveri.
Questo fenomeno, di cui siamo ogni giorno spettatori, implica diverse conseguenze. La prima è una minore disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare i paesi poveri: l’incremento della povertà interna pone già loro abbastanza problemi. La seconda è un’instabilità sociale, testimoniata, in zone diverse e con modalità differenti, sia dalla crisi dei subprime, segno premonitore della tormenta attuale, sia dalle rivolte della fame.
Ma un fenomeno connesso a quello della povertà, che si sviluppa parallelamente a esso e che evidentemente è ad esso collegato, quello delle crescenti diseguaglianze nell’ambito della conoscenza, è ancora più inquietante. Il problema della sopravvivenza in certi continenti e quello del potere d’acquisto in altri hanno infatti per effetto un decadimento delle riflessioni sull’insegnamento e la ricerca. Ora, anche se i temi della disoccupazione, della precarietà del lavoro e dei redditi bassi dominano legittimamente la nostra attenzione, non dovrebbero comunque distrarci e renderci ciechi sulle carenze delle nostre politiche educative, visto che anch’esse hanno conseguenze sull’aumento della povertà.
Mentre la scienza progredisce a velocità esponenziale, tanto la scienza di base quanto le sue ricadute pratiche, il divario tra i suoi protagonisti, o almeno i dilettanti coltivati, e la massa di chi non ha la più pallida idea delle sue poste in gioco aumenta più rapidamente rispetto a quello dei redditi. Il divario tra i paesi che si impegnano nella ricerca scientifica e quelli che ne sono alieni, nonché, all’interno di ognuno di essi, tra l’élite scientifica e i più carenti nel campo della conoscenza, aumenta più velocemente di quello delle ricchezze. George Steiner ha fatto notare che il budget per la ricerca della sola Harvard University è superiore alla somma di tutti quelli delle università europee. Se nei paesi emergenti nascono dei poli di sviluppo scientifico, al loro interno le diseguaglianze in materia di istruzione e di conoscenze sono ancora più considerevoli che nei paesi sviluppati, dove pure continuano a crescere.
Possiamo dunque temere di veder apparire, nel medio termine, non una democrazia diffusa su tutta la Terra ma un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, contrapposta a una massa di semplici consumatori e a una massa, ancora maggiore, di esclusi sia dal sapere sia dal consumo. Saremo dinanzi a un’aristocrazia globale (nei laboratori delle università americane si incontrano già individui provenienti da ogni parte del mondo, molti dei quali non ritorneranno nel paese di origine).
Saremo dinanzi a un’aristocrazia polare (nel senso che le reti di circolazione delle conoscenze si incroceranno in più punti del pianeta). Infine, e senza irrigidire necessariamente i rapporti di forza esistenti, essa tenderebbe a rinforzarli (dato che il costo degli studi e le condizioni di vita sociale giocano certamente un ruolo essenziale nella diffusione del sapere). Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive a casa del diavolo, in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità.
La storia ha un senso? Quale senso? L’unico senso è la conoscenza. E l’unico ostacolo alla conoscenza è l’arroganza intellettuale degli allucinati di ogni sorta che vogliono imporre le loro convinzioni all’umanità. Certo, esistono diversi livelli di allucinazione, e non metto sullo stesso piano i teorici del liberalismo e i fanatici religiosi. Ma anche i primi sono ben lontani dalla modestia scientifica (parlo della modestia della scienza in sé, non di quella degli scienziati) che mira a spostare progressivamente le frontiere dell’ignoto.
Alla fin fine, la storia dell’umanità sarà quella di questa conquista paziente, la cui necessaria conseguenza dovrà essere la liberazione di ogni individuo. Solo le procedure di esclusione, messe in opera sottilmente o violentemente dai preconcetti dei sistemi ideologici e religiosi, che fondano sulla natura la diseguaglianza e il destino degli esseri umani, si oppongono a questo movimento doppio e parallelo. Se un giorno ci sarà una rivoluzione sarà una rivoluzione dell’istruzione e dell’educazione alla libertà.
La Repubblica 27.08.12
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“Il caso degli europei che non sanno leggere una frase”, di Giuseppe Sarcina
Un adulto su sette legge a fatica. Sillaba le parole, a stento collega le frasi, quasi mai capisce il senso di un testo semplice. Sono circa 73 milioni di cittadini europei (su una popolazione totale di 495 milioni). Una cifra inaspettata, per certi versi clamorosa nell’Unione europea che quest’anno ha giustamente celebrato i 25 anni di Erasmus, lo scambio di studenti tra le Università europee.
La Commissaria Androulla Vassiliou (Educazione, cultura, multilinguismo e gioventù) sta aspettando le conclusioni di gruppo di studio. Il 6 settembre, a Bruxelles, presenterà un piano di contromisure. È certamente un problema economico, perché queste persone con poche o alcuna capacità troveranno meno spazio nel mondo del lavoro. Oggi, in Europa, gli impieghi sotto qualificati sono pari al 20% del totale. Entro il 2020 scenderanno al 15% e la percentuale continuerà a diminuire. Ma è chiaro che chi (di fatto) non sa più leggere ha zero possibilità di migliorare la propria condizione. Gli altri corrono, loro sono fermi: una distanza che rischia di portare alla marginalità sociale.
Il fenomeno è trasversale ai diversi Paesi, anche se è difficile misurarlo con precisione. Eurostat, l’istituto statistico della Commissione, assume come parametro la quota di persone, comprese nell’età tra 25 e 64 anni, che non ha neanche completato il ciclo scolastico secondario inferiore (in Italia le scuole medie). Il Portogallo lascia interdetti con una percentuale del 50%; la Grecia è intorno al 22%; la Spagna al 20%; Francia e Italia tra il 10 e l’11%. Nella colonna positiva, con cifre quasi vicine allo zero, troviamo Repubblica Ceca, Danimarca, Lettonia, Austria, Polonia. La Germania? Intorno al 2% e l’altro Paese sempre citato come modello, la Finlandia, supera l’8%.
Dentro questi numeri ci sono gli effetti dell’immigrazione, ma anche dalla scarsa diffusione dei programmi di «formazione permanente», in molti casi, evidentemente, rimasti solo degli slogan.
La Commissione vuole intervenire anche alla base della piramide, quando i cittadini europei sono ancora, o dovrebbero essere, sui banchi di scuola. Anche qui i dati sono pesanti: scorporando i risultati dei test Pisa (i test internazionali sull’apprendimento degli studenti) si scopre che in Europa un quindicenne su cinque rivela «gravi» difficoltà con la lettura (le ragazze vanno meglio dei coetanei). Questo 20% è vicino al 18% degli Stati Uniti, ma lontanissimo dal 10% del Canada e dal 6% della Corea.
Il Corriere della Sera 27.08.12