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"Levi, il maestro dei premi Nobel" di Pietro Greco

Il 13 agosto 1912, cento anni fa, a Torino nasceva Salvatore Luria. Per le sue ricerche sui virus vincerà il premio Nobel per la medicina nel 1969. Primo dei «tre torinesi» che in meno di 15 anni saranno laureati a Stoccolma. Luria precede, infatti, Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975 per le sue ricerche sui virus oncogeni, e Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986 per la scoperta del fattori di crescita (Ngf) del sistema nervoso. Salvatore Luria condivide con Renato Dulbecco e con Rita Levi Montalcini tre elementi che molto spesso caratterizzano la scienza italiana.
Il primo è la ricerca di punta – la ricerca da Nobel – realizzata all’estero: elemento che caratterizza tutti i Nobel italiani nel dopoguerra. I «tre torinesi» effettuano i loro studi da Nobel tutti negli Stati Uniti. Ma realizzano all’estero le ricerche per cui saranno premiati anche i fisici Emilio Segré (Nobel nel 1959), Carlo Rubbia (1984), Riccardo Giacconi (2002); l’economista Franco Modigliani (Nobel nel 1985) e il genetista Mario Capecchi (Nobel 2007). Nel dopoguerra l’unico italiano a essere premiato per ricerche condotte in Italia è Giulio Natta (Nobel nel 1963). Una nota a parte merita Daniel Bovet (Nobel nel 1957), che ha realizzato le ricerche premiate a Roma, presso l’Istituto Superiore di Sanità diretto da Domenico Marotta. Ma Bovet è uno svizzero e, dunque, per mera coerenza di discorso lo escludiamo dalla lista.
Il secondo elemento è la formazione di base effettuata in Italia. In particolare Luria, Dulbecco e Levi Montalcini hanno studiato e si sono laureati presso la medesima università, quella di Torino. Si sono anche conosciuti da studenti e frequentati, da buoni amici, da ricercatori. Anche tutti gli altri Nobel italiani si sono formati in Italia. Il che dimostra – smentendo i più triti luoghi comuni – che l’università italiana produce eccellenza. I Nobel citati, infatti, sono solo la punta di quell’immenso iceberg composto dai «cervelli in fuga» dall’Italia che, nelle materie scientifiche, continua a essere per quantità e forse anche per qualità il più grande d’Europa.
C’è un terzo elemento che accomuna solo e unicamente Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini: il maestro. Giuseppe Levi. L’unico docente in Italia e, probabilmente, in tutto il mondo che possa vantare tra i suoi allievi tre premi Nobel. Ed è di Giuseppe Levi che vogliamo parlarvi, perché espressione di due capacità del nostro paese: quella di produrre buoni maestri e quella di non saperli riconoscere. Giuseppe Levi, infatti, è poco conosciuto. Di lui non si parla molto, malgrado la sua figura sia tratteggiata in Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Che, sia detto per inciso, è sua figlia. A dimostrazione che le capacità maieutiche di Giuseppe Levi, far esprimere in tutte le loro potenzialità la creatività dei giovani, non si esauriva nelle aule e nei laboratori dell’università.
Giuseppe Levi è nato a Triste nel 1872, in una ricca famiglia ebrea che si occupa di finanza. Studia e si laurea in medicina a Firenze. Diventa assistente presso una clinica psichiatrica e poi si reca a Berlino, per lavorare all’Istituto di anatomia diretto da Oscar Hertwig. Torna a Firenze poi è a Napoli presso la Stazione Zoologica di Anton Dohrn. È qui che affina le sue capacità di istologo dei tessuti nervosi. Si guadagna una cattedra prima a Sassari e poi Palermo. Infine, nel 1919, è a Torino per assumere la direzione dell’Istituto di anatomia umana.
Dimostrando di essere un grandissimo maestro. Le sue capacità sono descritte sia da Salvatore (che in America si è fatto ribattezzare Salvador Edward) Luria: «Ciò che imparai da Levi, e di cui feci buon uso in seguito, fu un atteggiamento di rigorosa professionalità, vale a dire imparai come impostare seriamente un esperimento e portarlo a conclusione. Appresi l’importanza di comunicare i risultati: il maestro soleva dire che, non appena una serie di dati apparisse significativa, bisognava pubblicarne il resoconto. E quando il manoscritto era pronto, Levi lo riscriveva da cima a fondo senza pietà. Un’altra lezione che ho appreso da lui, applicandola poi durante tutta la mia vita accademica, è quella di non mettere mai il mio nome sulle pubblicazioni dei miei allievi, a meno di aver contribuito direttamente e sostanzialmente al loro lavoro».
L’ETICA IN PRIMO PIANO
Un maestro, dunque, che mette in primo piano l’etica della sua professione, come testimonia anche Rita Levi Montalcini: «Aveva per la ricerca un rispetto morale, che mi auspico di trovare anche negli scienziati di oggi». E per questo era amato dai suoi studenti, malgrado il carattere non sempre morbido, come ricorda Renato Dulbecco: «Capiva gli studenti e ne perdonava le stramberie, ma non tollerava cose che riteneva improprie: allora inveiva, sprizzando saliva a destra e a sinistra. Le sue lezioni erano le più frequentate della facoltà, non perché vi si imparasse molto. L’anatomia si imparava studiando sui libri o facendo le dissezioni sui freddi tavoli di marmo bianco o le esercitazioni di anatomia microscopica nel vasto laboratorio al pianterreno. Gli studenti andavano a sentir Levi perché lo rispettavano, lo amavano. Era inoltre un simbolo di resistenza al fascismo, anche se si conteneva entro limiti che il regime poteva tollerare».
Giuseppe Levi tuttavia non era solo un maestro che brilla della luce riflessa proveniente dai suoi allievi. Era anche un ottimo ricercatore. Anzi «il più autorevole biologo italiano attivo tra le due guerre», come sostengono Lucio Russo ed Emanuale Santoni in Ingegni minuti. Una storia della scienza italiana.
A Giuseppe Levi hanno dedicato di recente un ampio saggio due giovani storici, Andrea Grignolio e Fabio de Sio, che mettono a fuoco i due aspetti salienti di Giuseppe Levi: quello del biologo che accelera lo sviluppo della biologia sperimentale in Italia e in Europa (è il primo in Italia e tra i primi nel continente a utilizzare la tecnica della coltura in vitro delle cellule) e quello dell’intellettuale antifascista.
Come ricercatore Giuseppe Levi ottiene importanti risultati. Uno dei quali nell’ambito dell’anatomia comparata è oggi noto come legge di Levi: il numero di cellule nervose è analogo in tutti i mammiferi, mentre è la loro dimensione a variare in relazione diretta con la grandezza dell’animale.
Come intellettuale Giuseppe Levi è fortemente impegnato in politica. È un socialista che frequenta Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Carlo Rosselli e prende posizione pubblica contro il fascismo. Pagandone le conseguenze. Conosce la prigione, le leggi razziali, la fuga rocambolesca inseguito dai nazifascisti. Lavora in un laboratorio clandestino approntato alla meglio dalla sua allieva (ebrea) Rita Levi Montalcini.
Nessuno dei suoi tre allievi più famosi farà ricerche e sarà premiato per aver continuato gli studi di Giuseppe Levi. La sua dimensione di maestro – l’unica veramente possibile per un autentico maestro – non è prescrittiva, ma è appunto maieutica. Come dimostrano Grignolio e de Sio, Giuseppe Levi catalizza la costruzione intorno a sé di un ambiente culturale complessivo adatto allo sviluppo della creatività scientifica, intriso di rigore morale.
Per questo è, ancora oggi, una figura «quasi leggendaria», secondo la definizione di Claudio Pogliano. Per questo è un modello. Un maestro dei maestri. Per questo nella nostra Italia, benché sia stato insegnante di tre premi Nobel, padre della scrittrice Natalia e suocero dello scrittore Leone Ginzburg, risulta, come scrivono Grignolio e de Sio nella loro monografia scientifica, «an illustrious unknown»: un illustre sconosciuto. Giuseppe Levi muore a Torino nel 1965.
(L’articolo di Pietro Greco sul fisico Bruno Pontecorvo è uscito domenica 19 agosto)

L’Unità 26.08.12