Speriamo che il seminario di ieri e forse ancora di più il ritorno dello spread in prossimità dei 450 punti base abbiano riportato alcuni ministri e viceministri coi piedi per terra.
L’obiettivo della riunione era quello di app rofondire provvedimenti attuabili fin da subito a favore della crescita, dopo che una riunione a questo consacrata a inizio agosto era stata rinviata per l’impreparazione di alcuni ministri. Ma l’impressione che si era avuta negli ultimi giorni è che, anziché approfittare della pausa estiva per studiare a fondo i dossier, il governo tecnico si fosse trasformato in un governo preelettorale, in grado a parole di moltiplicare i pani e i pesci e, nei fatti, varare un “deraglia- Italia” che avrebbe vanificato i sacrifici fatti in questi mesi per salvare il nostro paese. Dapprima era stata annunciata una defiscalizzazione dell’Iva sulle nuove grandi opere finanziate dai privati, che si sarebbe come d’incanto finanziata da sola, col reddito generato attraverso la realizzazione di questi progetti infrastrutturali. Se fosse vero che questi sgravi si autofinanziano, nel senso che generano entrate fiscali tali da compensare la perdita di gettito dell’Iva, allora perché non finanziare le opere direttamente con soldi pubblici? La sensazione è che si voglia in realtà trasformare il conclamato project financing, il coinvolgimento dei privati nel finanziamento delle grandi opere infrastrutturali, in un maggiore public financing.
Dal punto di vista delle casse dello Stato, non c’è infatti grande differenza fra agevolare fiscalmente investimenti privati o aumentare il proprio coinvolgimento diretto nel loro finanziamento.
Si era anche parlato, a Rimini e dintorni, di tagli del cuneo fiscale e contributivo. Ricordiamo che questo comporta circa 2,5 miliardi di entrate in meno per ogni punto di riduzione del prelievo e che ancora devono essere trovati i 6,5 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva nel luglio 2013. Anche questa riduzione doveva allora essere autofinanziata? Oppure limitarsi ad alcune imprese? E chi e come avrebbe deciso quali?
La verità è che sia il quadro macroeconomico che gli oneri sul debito pubblico sono fortemente peggiorati da quando sono stati stilati gli ultimi documenti programmatici del governo. Presentando a fine settembre la legge di bilancio bisognerà necessariamente tenere conto di questo deterioramento che si riassume in due cifre: il 2012 sembra destinato a chiudersi con una riduzione del Pil due volte più forte di quanto stimato ad aprile (attorno al 2,5 per cento contro l’1,2 del Documento di economia e finanza) mentre il ritorno dello spread al di sopra dei 400 punti base potrebbe comportare una spesa per interessi nel 2012 fino a 10 miliardi più alta di quanto preventivato. Inoltre il contesto internazionale si è deteriorato con il forte rallentamento della Cina, il Regno Unito in recessione e gli Stati Uniti che si avvicinano pericolosamente al fiscal cliff, la data post-elettorale in cui tutti gli incentivi fiscali varati per sostenere l’economia dovranno essere rimossi d’un colpo solo, rischiando di far precipitare il reddito nazionale come giù dalle scogliere di Moher.
Quindi, per quanto ci siano molti pionieri in cerca di protagonismo, di tesoretti proprio non ce ne sono in giro. E non ce ne saranno nei prossimi anni. Vero che oggi ci sarebbe bisogno di politiche di sostegno della domanda per rilanciare l’economia, ma purtroppo queste politiche a noi non sono consentite per le dimensioni del nostro debito pubblico e la crisi di credibilità che attraversiamo. Questa fa sì che gli annunci di tagli non finanziati siano dannosi oltre ad alimentare inutili illusioni. Rischiano, infatti, di far aumentare fin da subito la spesa per interessi sul debito, vanificando i progressi compiuti nell’avvicinarci al bilancio in pareggio. Quello che possiamo fare oggi è ridurre la spesa pubblica liberando risorse per tagli delle imposte e rendere più produttivo, più orientato alla crescita, il prelievo fiscale e l’uso delle risorse pubblieche. Per questo le politiche della crescita devono andare di pari passo con i progressi nella spending review.
Il governo dovrebbe rendicontarli sistematicamente e impegnarsi a trasformare una quota ben definita di questi risparmi in riduzioni delle tasse.
Ci sono poi tante riforme a costo zero per la crescita che magari non hanno effetti immediati, ma che aumentano grandemente la nostra capacità di beneficiare di un eventuale miglioramento della congiuntura internazionale. Fra queste misure, figurano gli unici provvedimenti varati ieri dal Consiglio dei ministri, quelli per la valutazione del nostro sistema scolastico. Sono ancora preliminari e per questo ignorano molti problemi attuativi, ma il rischio, dopo l’offensiva scatenata nell’ultimo anno contro ogni valutazione obiettiva e comparativa delle nostre scuole, era quello di fare passi indietro anziché in avanti. Invece il decreto presidenziale sul sistema di valutazione delle scuole varato ieri concede spazio ad una valutazione anche esterna e trasparente di insegnanti, presidi e studenti, tenendo conto delle specificità del contesto locale. Questa è una premessa indispensabile per permettere alle famiglie di scegliere meglio a quale scuola iscrivere i propri figli e per incentivare attraverso comportamenti imitativi una migliore qualità dell’istruzione. Ci sarebbe anche il capitolo politiche dell’immigrazione che può darci tanto in termini di crescita. È stato sin qui ignorato dal governo, ma speriamo che la dichiarazione del ministro Riccardi in entrata nel Consiglio dei Ministri di ieri («gli immigrati non sono una questione da affrontare per bontà, ma perché favoriscono la crescita») preluda ad atti concreti, ad una riforma che dia un senso all’ennesima sanatoria degli immigrati varata a luglio, su cui torneremo. Certo è che dagli immigrati ci si può aspettare un maggiore contributo alla generazione di nuove imprese che da provvedimenti demagogici e sistematicamente riciclati come l’impresa da un euro. Tutti sanno che per far partire un’impresa, soprattutto nell’hardware, dove oggi abbiamo maggiori vuoti da colmare, c’è bisogno di un consistente patrimonio iniziale. E questo capitale, dato lo scarso sviluppo dei mercati finanziari in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi non può che essere fornito dalle banche. Ecco allora che parlare di impresa a un euro nel mezzo di una pesante stretta creditizia che colpisce soprattutto i giovani suona perciò come una presa in giro. Soprattutto se a pronunciare questa formula magica fosse un ex-banchiere.
La Repubblica 25.08.12
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“Le ambizioni vanno realizzate”, di STEFANO LEPRI
La canicola prosegue ma stiamo già cominciando a capire come sarà l’autunno. Sempre più i partiti reclameranno che solo un ritorno alla politica può ridare prospettiva al Paese; ognuno a suo modo chiederà di mettere più soldi nelle tasche della gente offrendo ipotesi vaghe su come trovarli. Nel frattempo, è probabile che l’economia seguiti a perdere colpi, e la disoccupazione ad aumentare.
È bene che il governo Monti prosegua il mandato fino alla fine naturale della legislatura. Ma occorre anche domandarsi perché stia perdendo impulso. Non si può limitarsi a dire che l’impaccio viene da una maggioranza parlamentare eterogenea, composta di forze che erano rivali prima e torneranno ad esserlo nella campagna elettorale ormai prossima.
Ieri a Palazzo Chigi si sono confrontati progetti disparati di singoli ministri, alcuni sensati ma frenati dalla carenza di risorse, altri velleitari seppure benintenzionati, altri ancora di scarso respiro. L’impegno a nuove liberalizzazioni è importante; ma tra una congerie di proposte sembrano talvolta anche farsi avanti interessi ristretti, ben insinuati nell’alta burocrazia.
Non è solo la «casta» politica a mancare di risposte ai problemi del Paese. C’è un deficit complessivo di classe dirigente, dai burocrati agli imprenditori passando per le professioni e l’accademia. Quanti progetti ambiziosi esaminati dal governo dei tecnici si arenano nel timore che i meccanismi amministrativi non siano in grado di portarli a compimento, o che la resistenza degli interessi parassitari colpiti prevalga sulle energie sane dell’economia capaci di reagire allo stimolo?
Nel breve termine, l’Italia reggerà se la crisi europea, come oggi pare possibile, non sprofonderà in un circolo vizioso di pessimismo che si autorealizza. Possediamo ancora grandi risorse, sì: nel senso che i patrimoni delle famiglie e i beni delle imprese sono di dimensione sufficiente a consentirci di proseguire a campare intaccandoli a poco a poco.
Nell’interesse dei figli più che dei padri, tuttavia, occorre riconoscere che questo non basta. Si perde solo tempo a ripetere i soliti scaricabarile politici nazionali; né vale prendersela contro i tedeschi cattivi. Come si vede in questa estate, non si tratta solo dell’euro: in tutto il mondo avanzato l’economia offre sviluppi poco promettenti.
La crisi iniziata nel 2007 segna un riaggiustamento imponente dei rapporti economici internazionali. I Paesi avanzati avevano vissuto a credito, attraendo capitali dal resto del mondo; ora sono chi più chi meno carichi di debiti, tranne la Germania che ancora vende ai Paesi emergenti i macchinari con cui domani le faranno concorrenza. Tutti cresceranno a rilento, nessuno potrà fare da locomotiva. Noi ci troviamo in difficoltà maggiori, perché il «modello italiano» sembra invecchiato senza rimedio.
L’abilità ad arrangiarsi non è più competitiva nel mondo di oggi, perché altri si arrangiano a costi minori. Non produce con efficienza una società in cui le leggi sono rigide contro i deboli e interpretabili con elasticità a favore di chi può. E come si fa ad escogitare innovazioni, se i giovani non hanno prospettive di carriera, se «si è sempre fatto così» è saggezza ovunque sbandierata dai burocrati come dai faccendieri?
Chi aspira a governare l’Italia dovrebbe dirci come si fa a farla funzionare meglio. Quando il governo tecnico incontra ostacoli, sarebbe gradita una spiegazione precisa di come si potrebbe superarli. Altrimenti avremo una campagna elettorale dove i partiti affermati gareggeranno in promesse di denaro inesistente, mentre i partiti nuovi si limiteranno a ripetere che quelli vecchi fanno schifo.
La Stampa 25.08.12