Si sta diffondendo l’esaltazione della mediazione come virtù di una democrazia aliena dagli estremismi (ultimo esempio, Michele Ciliberto su l’Unità del 21 agosto). Ora, è certo vero che la democrazia comprende la reciproca legittimazione tra le forze politiche che si contrappongono; essa però comprende anche l’accettazione del conflitto. Anzi, essa si sostanzia nel conflitto. Quando gli opposti schieramenti presentano proposte poco distinguibili l’elettore non è incentivato a partecipare (questa spesso è stata la situazione degli Stati Uniti); e quando essi danno vita alle soluzioni di massima mediazione, i governi di «grande coalizione», viene deluso soprattutto l’elettorato che vorrebbe soluzioni di progresso (esempi recenti in Germania e in Austria).
Nel caso italiano, i nostalgici della mediazione si riferiscono alla “Prima Repubblica”; al proposito, è il caso di richiamare alcuni fatti. 1) Non tutte le forze politiche erano legittimate: per decenni, il Msi è stato considerato fuori dall’ «arco costituzionale». 2) Il periodo considerato il più positivo (la ricostruzione, il boom economico con la lira premio Oscar) è stato quello della massima contrapposizione tra centro e sinistra; De Gasperi e i successivi leader Dc mediavano sì, ma all’interno della propria coalizione. 3) Anche quando il Psi è entrato nella maggioranza questa è stata rigorosamente «delimitata», con l’esclusione di qualsiasi contributo dalle sinistre di opposizione; era in atto un ulteriore conflitto, quello tra le spinte moderate e quelle progressiste all’interno della coalizione di governo, e tale conflitto in qualche caso ha portato a riforme ragionevolmente «mediate» tra esse, ma in molti altri alla paralisi. 4) Su tematiche poste al di fuori delle logiche di schieramento, i risultati di maggior valore storico sono stati conseguiti a conclusione di contrapposizioni durissime: il divorzio, la depenalizzazione dell’aborto.
Beninteso, vi sono stati anche episodi di mediazioni ampie: la riforma sanitaria, il nuovo diritto di famiglia. Ma sono positive eccezioni; quasi sempre, quando sul conflitto è prevalso il consociativismo si è giunti a soluzioni che, anziché mirare all’interesse generale del Paese, sommavano le richieste avanzate dai diversi gruppi, rappresentativi di interessi particolari, ai quali era sensibile l’uno o l’altro partito.
Quanto alla «seconda Repubblica», non si vede come sarebbe stato possibile legittimare un «Polo» costruito intorno al protagonista del più colossale conflitto di interessi mai presentatosi nella leadership politica di un Paese democratico occidentale; l’errore non è stato l’antiberlusconismo, bensì la sordità ai suggerimenti di chi chiedeva una linea di assoluto rigore su questa pregiudiziale (ricordo Paolo Sylos Labini, non certo un «estremista»). Il limite del centrosinistra stesso – cui è doveroso porre rimedio – non è stata perciò la conflittualità con la parte opposta, bensì l’incapacità di costruire una coalizione omogenea, capace di attuare, quando ha avuto la maggioranza parlamentare, un proprio progetto di governo.
Giustamente, lamentiamo che a livello europeo le socialdemocrazie e le altre componenti progressiste siano state troppo omologate con il «pensiero unico», incapaci di presentare una proposta chiaramente alternativa anche quando esso, con la crisi, si è dimostrato fallace. A livello italiano, il discorso deve essere altrettanto netto; non basta dire che al governo dei tecnici deve seguire uno che veda impegnati i partiti, occorre che sia evidente che tra questi vi sono progetti contrapposti. Con una destra che finalmente fosse decente è possibile la legittimazione, non una mediazione paralizzante.
l’Unità 24.08.12