In teoria, i più concordano che il progetto d’integrazione della zona euro valga la pena di essere salvaguardato. Eppure, negli ultimi due anni in occasione di ogni decisione importante durante l’euro-crisi l’impegno dei politici è apparso troppo parziale e troppo condizionato. Più a lungo la zona euro rimane in una terra di nessuno con la periferia che accumula ulteriore debito a tassi di interesse elevati solo per guadagnare tempo, più costosi e dolorosi saranno i futuri aggiustamenti e maggiori i rischi di crollo. Questo è ormai così evidente che alcune voci rispettabili all’interno dell’opinione maggioritaria stanno ormai giungendo alla conclusione che, già ora, la zona euro potrebbe non essere più sostenibile e, quindi, sarebbe meglio dividersi adesso invece che più tardi, quando i costi potrebbero essere molto più alti. Ma questo punto di vista si spinge troppo oltre.
Cerchiamo di non lasciare dubbi: se la zona euro va a pezzi cade anche l’Europa e possono crollare anche il mercato unico e l’Unione europea. Quindi, se si crede nella sostenibilità della zona euro, non c’è assolutamente più tempo da perdere. Per i leader europei l’unica alternativa alla disfatta dell’euro nei prossimi mesi sta nel trovare la volontà politica per passare rapidamente a una maggiore integrazione – a partire da una tabella di marcia molto più chiara e perseguibile verso l’unione bancaria e fiscale che fermi e inverta la balcanizzazione delle banche e dei mercati del debito pubblico; un’unione economica che ripristini la crescita e la competitività, e un’unione politica che dia legittimità democratica al trasferimento di grandi parti della sovranità fiscale, bancaria ed economica al centro dell’Ue. E tutto questo può essere possibile – anzi auspicabile – solo se preceduto da un rinnovamento dell’appartenenza alla zona euro in modo che sia più in linea con le realtà attuali e con le verosimili prospettive.
La frammentazione dell’eurozona – che definiamo come il ritorno alle monete nazionali di una parte significativa degli attuali 17 membri della zona euro, e in particolare di uno o più dei quattro grandi (Germania, Francia, Italia e Spagna) – sarebbe così destabilizzante e caotica che l’Europa si troverebbe ad affrontare un decennio perduto. Oltre a distruggere la zona euro, la più grande, ovvero i 27 membri dell’Unione europea, sarebbe messa a dura prova. Nel breve periodo, per l’Europa la frammentazione sarebbe l’equivalente economico e finanziario di un arresto cardiaco. I flussi transfrontalieri di merci, servizi e capitali si interromperebbero perché le preoccupazioni per la definizione della valuta sopraffarebbero il normale calcolo di valutazione. Grandi disallineamenti valutari alimenterebbero lo stress finanziario delle aziende e darebbero luogo a molteplici inadempimenti. La disoccupazione s’impennerebbe. E la prestazione di servizi finanziari di base, dal settore bancario alle assicurazioni, sarebbe ridotta con un’alta probabilità di corse agli sportelli nei Paesi membri più vulnerabili della zona euro.
Proliferebbero i controlli – dal momento che le economie deboli cercherebbero di limitare l’aumento dei deflussi di capitali e le economie forti resisterebbero ad afflussi eccessivi. Nel processo sarebbe compromesso il funzionamento stesso del mercato comune che è alla base del progetto d’integrazione europea. La balcanizzazione delle banche, dei mercati finanziari e dei mercati del debito pubblico che è già in corso sarebbe seguita dalla balcanizzazione degli scambi di beni, servizi, lavoro e capitale, e da un ritorno al protezionismo commerciale e finanziario. I Paesi provati ormai da diversi anni dalla gestione delle crisi hanno pochi o anche nessun ammortizzatore in grado di assorbire nuovi colpi. Di conseguenza, gli sconvolgimenti economici e finanziari probabilmente alimenterebbero tensioni sociali e disfunzioni politiche – minando ulteriormente il sostegno nazionale per l’integrazione europea. Ma se il peso della catastrofe sarebbe sentito principalmente dalle economie deboli (già periferiche), anche i Paesi più forti (quelli che erano il nucleo) subirebbero un notevole contraccolpo.
Vediamo caso per caso. Nel tornare alle loro monete nazionali, le economie più deboli della zona euro riprenderebbero il controllo di una serie più ampia di strumenti politici. Avrebbero così maggiori mezzi per perseguire i vantaggi competitivi che sono essenziali per il ripristino delle dinamiche di crescita e la creazione di posti di lavoro. Ma farlo in modo efficace richiederebbe la gestione sapiente di una svalutazione delle principali valute. Essi si troverebbero anche a contrastare forti pressioni inflazionistiche e costi più elevati delle importazioni, canali di trasmissione monetaria e bancaria interrotti, e maggiori premi di rischio. E con tutta l’Europa disconnessa, scoprirebbero che i vantaggi nei prezzi ottenuti tramite la svalutazione rischiano di essere erosi da un crollo della domanda regionale. Inoltre, dati i disallineamenti valutari, un ritorno su vasta scala alle monete nazionali comporterebbe una serie d’inadempienze. Insieme ad alcune ristrutturazioni coercitive e a una conversione forzata di posizioni in euro nelle nuove e deprezzate monete nazionali.
I temi della domanda regionale e del default sono importanti anche per le economie più forti. Nonostante i progressi fatti nella diversificazione del commercio, tra cui un maggiore riorientamento verso i Paesi emergenti, quantità significative delle loro esportazioni sono ancora vendute in Europa. Questo crollo del mercato arriverebbe al colmo delle perdite a causa della rapida erosione dei crediti finanziari verso le economie più deboli insolventi per i loro debiti in euro, sia direttamente sia tramite la probabile necessità di ricapitalizzare le istituzioni regionali. La ristrutturazione del debitore, e il default certo, potrebbero compromettere i bilanci delle istituzioni creditrici, aumentando il loro proprio debito (perché avranno le stesse attività, ma una maggiore passività) e il costo del capitale. E sarebbe a rischio anche il rating AAA della Germania e di altri membri fondanti della zona euro. Vi è poi il resto del mondo. L’Europa è ancora la più grande area economica del globo, e la più interconnessa da un punto di vista finanziario. Come tale, il suo crollo sarebbe inevitabilmente trasmesso al resto del mondo. E con gli Stati Uniti che stanno già lottando per mantenere una crescita economica significativa e creare posti di lavoro, potrebbe concretizzarsi una recessione globale.
Tutto questo spiega, naturalmente, il motivo per cui le narrazioni politiche hanno ripetutamente cercato di escludere una frammentazione della zona euro; e anche perché i leader di altri Paesi hanno messo sotto pressione i loro omologhi europei per affrontare la crisi regionale in modo più deciso e olistico. Ma le parole e le moral suasion sono gravemente insufficienti per fermare le forze di frammentazione liberate da gravi difetti di progettazione e alimentate da anni di risposte politiche tattiche piuttosto che strategiche, sequenziali e non simultanee, e parziali e non complete. Solo comprendendo l’enormità dei rischi che corrono, i leader europei hanno una possibilità di superare le persistenti tensioni interne e convergere su una risposta che possa mutare le regole del gioco.
E solo allora sarebbero in grado di convincere una cittadinanza scettica della necessità di adottare misure realmente senza precedenti – innanzitutto riformare la zona euro in un’unione più coerente, più piccola, meno imperfetta e strutturata e gestita in modo più saldo; in secondo luogo garantire che questa Eurozona riformulata possa andare avanti nel creare crescita e posti di lavoro; e, terzo, salvaguardare il funzionamento più ampio dell’Unione europea. Dopo troppi anni di battibecchi e litigi, i leader europei non hanno più a disposizione una soluzione chiara, relativamente gratuita e altamente certa per la crisi regionale.
Quello che hanno è un po’ di tempo – anche se non molto – per tentare di difendere l’integrità del progetto d’integrazione regionale, adottando subito misure coraggiose, a partire da un’unione economica, fiscale e bancaria, fino all’unione politica. Sì, il risultato è tutt’altro garantito e, inevitabilmente, ci sarebbero immediate defezioni. Ma tutto questo impallidisce in confronto alla catastrofe che l’Europa e il mondo subirebbero se si continua con un approccio che rimane troppo limitato e troppo a corto raggio.
La Germania e i Paesi chiave devono decidere con coraggio se credono che la zona euro possa sopravvivere e in quale formato. Se la risposta è sì, allora la ricerca di un’unione meno imperfetta dovrebbe essere corredata di massicci finanziamenti ufficiali, sia fiscali sia dalla Bce, alla periferia per lenire il doloroso adattamento attraverso l’austerità, le riforme e la svalutazione interna. Se, invece, si dovesse decidere che la zona euro non è vitale, come invece è e che un’unione più piccola non è realizzabile, i costi di un crollo futuro e disordinato sarebbero molto più alti di una rottura immediata. Quello che non dovrebbe ad alcun costo accadere è che la zona euro rimanga com’è ora nel mezzo del guado.
* Nouriel Roubini, economista, professore alla Stern School della New York University
* Nicolas Berggruen è presidente del Consiglio sul futuro dell’Europa
* Mohamed A. El-Erian è Ceo di Pimco, la società globale di gestione degli investimenti
La Stampa 23.08.12
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