Caro direttore, ilpresidente della Repubblica ha sottolineato il disagio costituzionale tra la necessaria efficacia dell’indagine penale e l’autorevolezza del capo dello Stato, che è un bene giuridico esso stesso, non un privilegio. Il Presidente, nel nostro sistema, opera oltre che con atti formali, espressamente previsti, anche con la moral suasion, cioè con la vigilanza sulla armonia del governo del Paese. L’efficacia di quest’azione riposa sull’intangibilità dei suoi percorsi. Un sindacato giudiziario, anche il più rispettoso, sui comportamenti che il capo dello Stato deve poter porre in essere liberamente e quando occorre, frantuma questa autorevolezza. E mina la funzione costituzionale.
Il nodo delle intercettazioni, cioè se esse fossero da mantenere o da distruggere subito, ha reso inevitabile, e soprattutto utile, il conflitto. C’è una grande opinabilità tecnica sul punto. È difficile applicare direttamente la norma costituzionale dell’articolo 90 ad un caso non previsto. Vi sono peraltro argomenti anche per escludere la distruzione immediata. E al momento mi pare difficile che il giudice possa disporla. Da tutto ciò il disagio costituzionale.
In questa vicenda in troppi hanno gridato allo scontro mettendo insieme vicende e compatibilità giuridiche diverse. Dimenticando che il conflitto di attribuzioni è un rimedio, certo non frequente, ma fisiologico a una dialettica tra grandi istituzioni, e che il tema più generale delle intercettazioni come strumento di indagine è, in parte, diverso. Il Presidente ha compiuto un gesto importante, ma non drammatico. E tutti, soprattutto quanti hanno, anche nella magistratura, autorevolezza, dovrebbero ricordare che la dialettica non è lotta.
Se si ragiona considerando solo gli atti formali del capi dello Stato come protetti dall’immunità e si dimentica la complessità della sua posizione e del momento politico, si può pure pensare, a mio avviso sbagliando, che non vi sono dubbi sul potere del pm di acquisire le conversazioni del Presidente captate per caso. Io ritengo invece che nessun tipo di valutazione possa essere compiuta sui suoi atti, ancorché casualmente conosciuti, da un pm. L’immunità costituzionale non esenta il Presidente dalla legge penale. Ma protegge la funzione costituzionale nel concreto di fronte a valutazioni comunque rilevanti sul piano giudiziario, che non siano assunte dal suo giudice naturale. Che è la Corte costituzionale.
È sbagliato affermare che la Corte può, in questa vicenda, dare torto o ragione ai magistrati di Palermo. La Corte, piuttosto, è chiamata a dire in che modo l’articolo 90 della Costituzione deve trovare applicazione in un caso che il legislatore storico non ha previsto. Ed in che modo la complessiva funzione del Presidente può essere messa al riparo anche dalla casualità giudiziaria. Il comune cittadino, terzo estraneo, è protetto dall’udienza davanti al gip. La funzione politica del Presidente, io credo, non lo è affatto.
Non è indispensabile una nuova legge sulle intercettazioni. La giurisprudenza della Cassazione ha chiarito i limiti e le garanzie verso l’indagato che il pubblico ministero deve osservare. Occorre applicare seriamente questi criteri che la Suprema Corte, si badi, non certo un passante per caso, ha delineato. E occorre che i capi degli uffici si facciano carico del problema. L’intervento della legge sarebbe il segno della difficoltà della magistratura di comprendere il momento storico, e per la autonomia del suo governo sarebbe un brutto segnale.
L’indagine penale non è un tè con le amiche. È una vicenda necessariamente invasiva. La legge che reprime, adopera la forza. Dunque non ci si può illudere di inventare un meccanismo che renda tutti felici. A meno di non immaginare un potere di intercettare assolutamente inerte. Per questo, o meglio anche per questo, la vicenda Quirinale-Mancino è stata compresa male. Essa, ripeto, non riguarda il tema delle intercettazioni, ma la funzione costituzionale del capo dello Stato che non ammette opinabilità.
Sono anni che a Napolitano spetta di dire cose difficili. Per esempio, che il rispetto delle grandi linee del sistema costituzionale è la precondizione di ogni altro livello di legalità.
L’autore è giudice della Corte di Cassazione
La Repubblica 22.08.12
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“LE PAROLE INCAUTE DEL COLLE”, di FRANCO CORDERO
Continua la fioritura d’una favola compendiabile nei seguenti termini: il presidente della Repubblica, vertice dello Stato, installa i governi, scioglie le Camere, comanda le forze armate, presiede il Csm, ecc., investito d’amplissimi poteri, quindi «inviolabile»; ed è sacrilegio eversivo ascoltare quel che gli esce dalla bocca in telefonate incaute con persone sottoposte a legittimo controllo; l’empio materiale sia subito incenerito. Su questa teologia politica m’ero permessa una similitudine; è come dire: «piove, quindi abbiamo un governo ladro». Formule vaniloque, perciò non confutabili, e sarebbe tempo perso tentarlo. Siamo nella semiotica dei gesti: pugni sul tavolo, piedi battuti, bandiere al vento, grancassa, fanfara, sottinteso minatorio («ci pensi due volte chi vuol contraddire»); non è scenario confortevole in piena crisi istituzionale ed economica, tanto più che gli aspetti oscuri stanno dalla parte dominante. Gli arcana imperii ostruiscono un’inerme legalità laica. Nell’ultima versione l’argomento pseudogiuridico suona così: i vari uffici del Presidente richiedono canali sicuri; qualora siano sciaguratamente violati (Dio non voglia), le relative cognizioni svaniscono, qualunque fatto risultasse. Non è privilegio, beninteso: l’art. 15 Cost. tutela tutti i comunicanti; ad ogni buon conto sta sul telaio una legge ad hoc, come sub divo Berluscone, il cui stile rifiorisce. Vedi puntuali azioni disciplinari. Mancano solo gl’ispettori inquirenti. In compenso ecco un assai poco tecnico ukase da Palazzo Chigi, 8-17 agosto: confessandosi a Tempi, organo Cl, l’economista chiamato a salvare la patria condanna gli ascolti de quibus, «particolarmente gravi»; il governo interverrà contro gli abusi; e assicura sostegni alla scuola privata.
Veniamo alle ipotesi giuridiche. Primus spedisce una lettera a Secundus; Tertius l’asporta dalla cassetta: il contenuto è dirompente, niente meno che i piani d’una offensiva terroristica o narcomercato planetario o simili imprese. Davvero tale missiva conta zero in sede istruttoria? L’art. 15 Cost. tutela i segreti epistolari ma se la lettera galeotta sia prova acquisibile, lo dicono regole processuali; e l’art. 253 c. p. p. parla chiaro (cadono sotto sequestro corpi del reato e cose pertinenti allo stesso). Passiamo alle intercettazioni. Magnolia e Orchidea sono famiglie mafiose concorrenti: Orchidea aveva delle talpe nella rivale; e perquisendo i suoi santuari gl’indaganti scovano mirabilia culminanti nel film sonoro dei segretissimi comitati d’affari. Erano riprese abusive, però valgono oro contro Magnolia. Dovendolo negare, arrossirebbe persino qualche avvocato berlusconiano. Esiste poi una norma sulla quale i “prerogativisti” chiudono gli occhi volando nei cieli della Carta integrata da Ramo d’oro e Re taumaturghi: l’art. 271, comma 3, ultima frase, vieta la distruzione dei nastri, dischi, verbali, testi trascritti, ogniqualvolta costituiscano corpo del reato. Infine, importa poco, anzi niente che l’articolo 7, comma 3, l. 5 giugno 1989 n. 219 ammetta perquisizioni, intercettazioni, provvedimenti cautelari «nei confronti del Presidente» solo se la Corte l’avesse sospeso dalla carica: nessuno gli aveva inflitto tali misure; la Voce corre su una linea sottoposta a legittimo controllo; caso previsto dall’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140, applicabile in via analogica. Il resto è enfasi declamatoria: ripetuto mille volte, da tante ugole con vario accompagnamento, l’assunto insostenibile tale rimane; lo rimarrebbe anche ratificato da consessi a cento teste ubbidienti. Il bello dell’armatura sintattica è che non sia falsificabile: i discorsi stanno in piedi o no; e nessuna pantomima politicante converte i soprusi in opera virtuosa. Nel Mysterium Collis colpisce il quadro impetuosamente alogico. Nel coro bipartisan il giuspatologo raccoglie larga messe: ad esempio, l’idea d’un jeu de main
dove spariscano possibili prove, inaudita altera parte, come se il contraddittorio non fosse requisito assoluto (art. 111 Cost.); il tutto sulla base d’una cabalistica «inviolabilità », in barba all’etica democratica. L’impeachment anglosassone appartiene all’altra faccia della luna. Da noi tiene banco Giovanni Botero (1544-1617), mezzo gesuita, teorico d’una controriformista Ragion di Stato, la cui categoria fondamentale è l’arte dei prudenti ossia machiavellismi a mosse quatte. Vent’anni fa uomini del re negoziavano con la mafia accreditandola quale potere concorrente: consta da res iudicatae;
vale o no la pena sapere cos’avvenisse tra le quinte? Vi ostano potenti interessi. Cerimonie ipocrite velano collusioni organiche. Ricapitoliamo i fatti: voci del Quirinale conversano solidalmente con l’ex ministro in cerca d’aiuto contro la procura intenta alle indagini (in particolare temeva il confronto con due ex ministri); colloqui editi svelano gl’interna corporis; l’effetto è deprimente e vari gesti l’aggravano. L’uomo al vertice afferma d’avere solo adempiuto dei doveri: esorta gl’italiani a stare tranquilli, perché terrà d’occhio le macchine giudiziarie; in materia d’intercettazioni aspetta novità delle quali abbiamo gran bisogno (restrittive, ovviamente, nel testo berlusconiano su cui voterà Montecitorio, e l’attuale premier manda segnali). Ancora parole incaute, sia concesso dirlo col rispetto che la persona merita: vanta consensi da tutti gl’intenditori interloquenti nell’affare e «il più largo riconoscimento»; lancia accuse d’ascolto abusivo; esige la distruzione dei materiali, mentre sarebbe bello esporre al pubblico i due dialoghi occulti; rovescia le bilance sollevando un clamoroso conflitto davanti alla Consulta. Spettatori equanimi guardano esterrefatti. In una circostanza dolorosa (è morto il consigliere compromesso) quirinalisti volontari gridano l’«assassinio mediatico ». Nell’Italia postfascista non s’era mai visto tanto plumbeo mimetismo, sebbene siano motivo ricorrente le partite ad armi impari.
La Repubblica 22.08.12