Si parla spesso della fuga dei nostri cervelli all’estero: professori, scienziati, ricercatori. Ma si parla pochissimo di un’altra fuga che in tempi rapidi potrebbe drammaticamente diventare un esodo di massa: quella dei nostri imprenditori. In fondo tra le due fughe c’è una strettissima parentela: anche gli imprenditori italiani sono «cervelli». In mancanza di grandi materie prime, di una moneta forte e di una politica all’avanguardia, per decenni le nostre imprese si sono distinte nel mondo proprio per questa caratteristica che tutti ci riconoscono: un particolare ingegno.
Nell’ultimo mese e mezzo ho fatto, per «La Stampa», un giro in provincia. È un territorio spesso trascurato dai grandi organi d’informazione, che leggono la realtà italiana quasi esclusivamente in un’ottica romana (la politica), o milanese (Piazza Affari), o comunque delle grandi metropoli. Girando per la provincia si ha invece un’impressione del Paese molto diversa da quella che emerge dalla lettura delle prime pagine o da quei tragici bollettini di guerra che sono le scalette dei gr e dei tg. Girando per la provincia si ha l’impressione di un Paese molto più vitale di quell’Italia in stato precomatoso – o meglio, prefallimentare – in cui ci hanno convinti di vivere.
Nel Nord-Est, in Emilia, nella Bergamasca, nel Bresciano ho trovato imprese non solo sane, ma anche in grado di sapersi adattare alla crisi. Abbiamo aziende che producono ingranaggi che la mitica industria meccanica tedesca non è in grado di realizzare; in Romagna c’è un’azienda che ai tedeschi vende le macchine per spillare la birra; il nostro agroalimentare è ancora il migliore del mondo. «Nessuno», mi diceva Riccardo Illy, «è superiore agli italiani nell’industria del gusto, nella moda e nel tessile, nel lusso, nel design, nella meccanica», e potremmo aggiungere molte altre cose.
Eppure, siamo uno dei Paesi più considerati «a rischio». Ma perché? «Se fosse per noi non avremmo problemi», mi diceva il presidente degli industriali di Parma, dove nei primi sei mesi di quest’anno l’export è cresciuto del dodici per cento e perfino l’occupazione ha fatto registrare un segno più. Anche in Veneto, o a Bergamo, o a Brescia, ti dicono così: «Se fosse per noi».
Ma non dipende solo da loro. C’è certamente il contesto internazionale: l’euro, lo spread, gli imprevedibili e indecifrabili «mercati». Ma c’è soprattutto la politica di Roma: le mancate riforme, la perenne incertezza. È questa che gli imprenditori vedono, ormai, come principale nemica.
Soprattutto al Nord, sta montando un sentimento anti-statale che non ha nulla a che fare con il leghismo di vent’anni fa: è una sfiducia nelle istituzioni, è un percepire lo Stato come un bastone fra le ruote. Di questo sentimento a Roma evidentemente non si sono accorti: si sta lì ancora discettare su chi sarà il leader del centrosinistra, sul ritorno di Berlusconi, su dove andrà l’Udc, su cosa farà Fini senza trascurare le mosse della corrente di Briguglio.
Ieri Passera ha detto che in Italia la tassazione è troppo alta: giusto, ma gli imprenditori non aspettano altro che si passi dalle parole ai fatti. Mi diceva un imprenditore bergamasco – settore riscaldamento, trentasei milioni di fatturato all’anno – che la Turchia gli ha offerto otto anni di costo del lavoro quasi a zero se si trasferisce là. Nel Modenese, dove l’economia è ancora ferma per il terremoto ma anche per i mancati interventi dello Stato, ci sono emissari di Austria, Croazia e Slovenia che fanno ponti d’oro alle imprese danneggiate dal sisma affinché emigrino da loro. Quanti sapranno resistere?
E attenzione. Sbaglierebbe chi pensasse che, a tentare gli imprenditori, sia solo il miraggio di un costo del lavoro più basso e di meno tasse. Per gli imprenditori il cancro vero è l’incertezza normativa. O, paradossalmente, la certezza che le norme cambieranno di continuo: a ogni cambio di governo o anche di ministro o di sottosegretario. Ci sono aziende che si spostano in Svizzera, dove il costo del lavoro è elevato e i controlli dello Stato rigorosi, pur di avere la possibilità di pianificare un futuro.
Questa è oggi la vera emergenza italiana: trattenere la nostra imprenditoria. È un’imprenditoria ricca di talenti, a volte disposta – soprattutto in provincia – a mettere a rischio anche la casa di famiglia. Certamente è anche un imprenditoria che fa i propri interessi. Ma mai come in questo momento i loro interessi sono quelli di tutti. Se i nostri imprenditori scappano, non ci sarà governo tecnico o banche centrali europee a poterci salvare. Sta alla politica evitare un simile disastro.
La Stampa 21.08.12