Vedo i passi che si fanno nelle sedi europee per rendere più integrate, e quindi più efficaci, le politiche volte a stabilizzare l’euro e a raddrizzare i bilanci nazionali dai quali tale stabilizzazione oggi dipende. E vedo le reazioni che ciò suscita tra i nostri cittadini, in un crescendo di ostilità reciproca tra le opinioni pubbliche nazionali e di ostilità comune verso l’Europa. Chi reagisce a misure di austerità che sente imposte dagli altri, chi al vincolo di pagare per gli altri e tutti protestano per le lesioni delle rispettive sovranità. Lorenzo Bini Smaghi ha scritto il 7 agosto sul Financial Times che è la sopravvivenza dell’euro a richiedere queste interferenze nelle sfere nazionali, conseguenze naturali della maggiore integrazione politica. Perciò politici e commentatori – così concludeva – non possono chiedere più Europa e poi lamentarsi per le perdite di sovranità. Sembra una conclusione inesorabile, ma a me pare assurdo che l’integrazione politica ricercata e promossa per anni da molti di noi per dare più strumenti comuni e quindi più forza agli europei sia fonte invece di ostilità fra di loro.
Davvero non può essere che così? Davvero ciò che i padri fondatori avevano pensato per costruire un tessuto di interessi condivisi fra i nostri popoli va invece nella direzione opposta? Siamo noi, candidi e ingenui europeisti, che ci accorgiamo troppo tardi degli interessi nazionali, oppure c’è qualche errore che si sta facendo? Siamo sicuri, insomma, di essere sulla strada giusta?
Mi scuseranno i lettori se torno su un tema sul quale li ho già intrattenuti più volte, ma non possiamo non risalire alla scelta che fu fatta quando venne deciso, sul finire degli anni 80 e poi con il Trattato di Maastricht, che avremmo avuto una moneta comune, l’euro, una politica monetaria da affidare a una banca centrale europea, ma per il resto la cornice istituzionale dell’euro sarebbe stata non un più forte governo sovranazionale, bensì il solo coordinamento intergovernativo delle politiche nazionali.
Non riprendo ora le critiche suscitate da quella scelta, né ignoro l’argomento dei suoi autori, secondo i quali o si faceva così o l’euro non lo avremmo avuto. Mi limito a constatare che la scelta, checché si dicesse per darle un fondamento razionale, fu fatta per l’unica e fondamentale ragione che si vollero salvaguardare le prerogative e le responsabilità nazionali in materia economica e fiscale.
In questo modo, diversamente da quanto accade negli assetti di tipo federale, la stabilità dell’euro venne fatta dipendere dalla solidità dei singoli bilanci nazionali. E a garanzia di tale solidità si inventò un sistema di sorveglianza, pre-allarmi, valutazioni comuni, raccomandazioni, eventuali sanzioni da decidere collegialmente, che venne presto violato (con il consenso di tutti) proprio dai due Paesi maggiori, Francia e Germania, e che mostrò anche per questo tutta la sua fragilità.Ma questo era ormai il binario sul quale ci eravamo immessi e quando le cose hanno cominciato ad andare davvero male, l’unica opzione che quel binario ci offriva è stata quella di irrigidire i meccanismi di coordinamento e di trasformare le raccomandazioni in vincoli e le proposte in obblighi.
A quel punto era inevitabile che l’eurozona venisse percepita dai nostri cittadini come un sistema interconnesso di Stati, che tutelano la loro moneta distribuendo oneri e sacrifici in modo da erodere la libertà e le responsabilità di ciascuno a beneficio degli altri. In un assetto fondato sul coordinamento coatto, essere uniti significa essere prigionieri l’uno dell’altro.
È facile replicare che non è così, perché tutto questo lo facciamo a tutela di un bene comune. La realtà è che il bene comune è percepito da ciascuno come un cappio al proprio collo, che reca benefici agli altri e che gli altri sono in grado di stringere ancora, tant’è che si chiede (e si ottiene) sempre di più che le decisioni comuni siano convalidate dai Parlamenti nazionali. È insomma una vera e propria nemesi storica. Una scelta fatta per salvaguardare i poteri propri degli Stati si sta risolvendo nel suo contrario e distrugge non solo quei poteri, ma anche le autonomie regionali e locali.
No, non era questo ciò a cui pensavano i padri fondatori, né era questa l’integrazione politica perseguita dopo di loro. Era la creazione di una più forte istanza sovranazionale, che non si limitasse a coordinare le politiche nazionali, ma avesse poteri sufficienti a garantire la solidità della sua moneta. Anche San Tommaso avrebbe oggi la prova che gli Stati membri sarebbero così più liberi e più responsabili di quanto non lo siano con l’attuale coordinamento irrigidito. Certo, liberi anche di fallire, perché il loro fallimento non metterebbe a repentaglio la moneta comune, ma allo stesso tempo gravati da minori stress e oneri finanziari, visto che metà dello spread che pesa ora sui nostri Stati debitori è dovuta al rischio che essi rappresentano per l’euro.
È un confronto che non lascia dubbi e il dubbio è caso mai se siamo ancora in tempo a farlo il salto di binario, dotando il nostro livello sovranazionale di competenze e di risorse capaci di dargli la forza e la credibilità tipiche dei sistemi di tipo federale. Non è facile, lo so, specie sul terreno delle risorse, che dovrebbero portare il bilancio comune ben al di sopra dell’attuale 1% del Pil europeo. Detto questo, la domanda rimane ineludibile: se non ora, quando?
Il terreno sotto di noi sta bruciando. L’uscita dell’eurozona dalla sua crisi è tuttora problematica, mentre crescono gli umori contrari all’euro, alla convivenza forzata con gli altri, all’Europa. E in questo clima si parla sempre più di referendum sull’euro, lo fa la stessa Spd tedesca, sia pure con motivazioni ancora segnate dal suo tradizionale europeismo. Qualcuno pensa che l’euro e gli assetti che oggi lo circondano possano essere difesi con successo davanti agli elettori?
C’è un solo modo di affrontare i referendum che si profilano ed è quello di precostituirne i quesiti, andando senza remore nella “zona rossa” delle modifiche che investono le stesse costituzioni interne, delimitata dal Tribunale costituzionale tedesco. Si affidi a una Convenzione costituente il compito di preparare il disegno di una unione integrata, che abbia un volto e chiare responsabilità, e lo si sottoponga poi agli elettori, chiedendo loro: che cosa volete, una unione di popoli che si danno un forte governo comune, ma rimangono nelle loro sfere liberi e responsabili, o una unione di governi che senza gran costrutto si pestano i piedi l’uno con l’altro?
È un cimento arduo, ma potremmo pentirci troppo tardi di non averlo affrontato. Dai leader europei dobbiamo esigere il coraggio di farlo.
Il Sole 24 Ore 19.08.12