«Per salvaguardare il patrimonio industriale del Paese è bene che, laddove serve, intervenga direttamente lo Stato, rilevando quote di aziende private ed investendo in grandi progetti industriali». Nell’intervista pubblicata ieri, Susanna Camusso ha riportato in vita un concetto che sembrava sepolto in lunghi anni di liberismo: il capitale pubblico al servizio della crescita come antidoto alla crisi. Giulio Sapelli raccoglie quella che non reputa affatto una provocazione. «Tutt’altro – dice il docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano – le parole della Camusso hanno il grande pregio di sottolineare la necessità di una svolta rispetto al pensiero a lungo dominante, quello che reputa la presenza dello Stato nell’attività economica un nemico della crescita. Mi permetto invece di dissentire relativamente alla modalità con cui bisognerebbe agire».
Per quale ragione? «Se ho ben capito le parole del segretario della Cgil, l’idea è quella di un’azione duplice: da un lato l’assunzione da parte dello Stato di un ruolo attivo in grandi progetti industriali, dall’altro l’ingresso nel capitale di aziende in difficoltà con l’obiettivo di traghettarle fuori dalla crisi. Ecco, se il primo punto mi vede assolutamente d’accordo, sul secondo ho una diversa visione delle cose».
Partiamo allora da questa divergenza di vedute. «L’idea dello Stato che prende il timone di aziende alla deriva appartiene ad un passato neppure recente. Non è pensabile, per capirci, dare vita ad una nuova Iri, quella che nel pieno della Grande crisi fra le due guerre salvò fabbriche e banche dal fallimento, creando allo stesso tempo i presupposti per la creazione di vari “carrozzoni” assistiti ed infiltrati dalla politica che tanti danni hanno fatto al Paese nei decenni successivi. Con questo non voglio dire che il governo si debba girare dall’altra parte rispetto alle società in difficoltà, ma gli strumenti per intervenire sono altri».
Vale a dire? «Uno strumento forte è sicuramente il varo di provvedimenti mirati di defiscalizzazione con i quali concedere ossigeno finanziario alle imprese che non hanno liquidità sufficiente per l’attività ordinaria e/o per gli investimenti».
E in casi drammatici, come quello attualissimo dell’Ilva di Taranto, che cosa si fa? «Di fronte ad un’azienda che ha bisogno immediatamente di un grande finanziamento, nel caso in questione per procedere ad un’enorme bonifica, la via maestra per fornire le risorse che il privato non è in grado di reperire è semplicemente quella del prestito. Pensiamo ad un esempio che ci è molto familiare, quello della Chrysler salvata da Obama con i soldi dei contribuenti americani e poi rilevata dalla Fiat».
Ritorniamo all’evocazione di uno Stato imprenditore… «Ecco, su questo Susanna Camusso ha il merito, come ho detto, di aver riproposto una questione finita colpevolmente nell’oblio ed invece di stretta attualità. Il problema è che nelle grandi economie mondiali coloro che prendono le decisioni spesso non leggono testi storici dai quali avrebbero molto da imparare. Si renderebbero conto che nei momenti di grande crisi, come quello che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio, ben prima del fallimento della Lehman Brothers, l’intervento dello Stato nell’imprenditoria non è una bestemmia ma una necessità. Diro di più, è il vero volano per fare ripartire la crescita».
Ma se è sbagliato rilevare le aziende in crisi, in quale modo deve svolgersi quest’intervento? «In un modo consono ai tempi che stiamo vivendo, un’epoca di grande trasformazione sotto la spinta dell’incessante rinnovamento tecnologico. Ed allora il modello è quello di uno Stato imprenditore che dà vita a nuove aziende in settori con un’elevata potenzialità di sviluppo, ad esempio le attività all’interno della cosiddetta “green economy” piuttosto che quelle legate all’adozione della banda larga su scala nazionale. Tutto questo agendo con degli inderogabili principi di governance grazie ai quali evitare gli errori del passato».
Che cosa significa? «Occorre che alla guida di queste nuove aziende vengano nominati degli amministratori delegati dotati di un potere monocratico. Manager che devono rispondere del loro operato unicamente sulla base dei risultati ottenuti e non certo per la loro sensibilità alle convenienze della politica».
Non stiamo parlando di un libro dei sogni? «Non credo, sia perché ritengo che i tempi, a partire dalla consapevolezza di un profondo cambiamento, sono maturi, sia perché la stessa storia italiana ci fornisce un esempio illuminante dello Stato che si fa imprenditore sulla base di principi giusti e vincenti».
Qual è? «L’Eni di Enrico Mattei. Voglio però aggiungere che, oltre al ritorno dello Stato imprenditore, nell’economia italiana è necessario anche il rafforzamento di quello che è un nostro patrimonio peculiare. Mi riferisco alla presenza di imprese la cui priorità d’azione non è il raggiungimento del profitto, in primis le cooperative che vanno in qualche modo “restituite” alla loro missione».
Perché? «Perché compito di una cooperativa non è certo quello di evitare il fallimento della famiglia Ligresti, bensì svolgere un’indispensabile azione di sussidiarietà nel contesto economico. È tempo che il movimento cooperativo si scrolli di dosso la subalternità creatasi negli anni rispetto al modello capitalistico».
L’Unità 20.08.12