La tesi secondo cui per modernizzare e riformare l’italia ci sarebbe sempre bisogno di un qualche «vincolo esterno» ha una storia nobile e antica. Simili convinzioni sono state alla base dell’europeismo di gran parte delle nostre classi dirigenti. Si può non condividere il tratto elitario di quell’approccio, la scarsa fiducia nelle risorse politiche, culturali e civili dell’Italia e degli italiani, la diffidenza verso la stessa democrazia rappresentativa e le sue capacità di riformarsi. Ma non si può sottovalutarne l’importanza.
L’impressione, però, è che negli ultimi tempi questa linea di pensiero sia evoluta in una sorta di vocazione al commissariamento, da parte di intellettuali, politici e commentatori di cultura liberale. L’impressione, insomma, è che si sia andati un po’ in là. Paradossalmente, dopo che l’Italia ha disciplinatamente accettato di mettere il vincolo al pareggio di bilancio addirittura in Costituzione, si direbbe che la fame di sempre nuovi vincoli e imposizioni (interne o esterne, auto o etero-imposte) sia addirittura cresciuta.
Non annoiamo il lettore con il lungo elenco di proposte e appelli che in questi mesi sono venuti dai più diversi gruppi, associazioni e giornali. Dall’idea di far approvare le nostre finanziarie direttamente al parlamento tedesco alla richiesta (formulata due giorni fa da Nicola Saldutti sul Corriere della Sera) che il governo si impegni a non aumentare più le tasse fino alla fine del suo mandato. Il che, dopo aver messo il vincolo al pareggio di bilancio, equivale sostanzialmente a dire che esiste un’unica politica economica possibile, cioè un’unica politica possibile nel pieno della crisi.
La proposta più radicale è però quella venuta ieri, sempre sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi. «I partiti che si contendono le elezioni della prossima primavera – scrive Giavazzi – dovrebbero firmare tutti insieme un memorandum d’intesa (prima del voto, non ora) che vincoli le scelte economiche di chiunque vinca». Una proposta che ha senza dubbio il pregio della chiarezza, ma che suscita almeno una domanda: a cosa servirebbero, a quel punto, le elezioni? Una volta che i partiti si siano preventivamente accordati (anzi, di più: «vincolati») a precise scelte di politica economica, per quale ragione e con quali argomenti si dovrebbero disturbare i cittadini, pregandoli di recarsi ai seggi e votare per l’uno o l’altro dei suddetti partiti? Tanto più che a quel punto, come osserva giustamente Giavazzi, «la scelta razionale dopo le elezioni sarebbe di chiedere a Monti di continuare: se il programma è predeterminato per libera scelta, perché non affidarne l’esecuzione alla persona più adatta che abbiamo a disposizione?».
Sul nesso tra libertà e necessità la filosofia occidentale si è interrogata per millenni, ma il concetto di programma «predeterminato per libera scelta» appare un’innovazione decisamente radicale, almeno in un sistema democratico.
L’Unità 19.08.12