Il dibattito che si va sviluppando in questi giorni in Italia intorno all’Ilva di Taranto (o l’industria o l’ambiente, o il lavoro o la salute) è drammaticamente vecchio. E mentre noi ripetiamo da anni gli stessi concetti, altri Paesi sono andati avanti.
E hanno affrontato la stessa questione in modo assai concreto sia come teoria che come pratica.
La teoria, tanto per essere chiari, dice che non esiste alternativa al lavoro fondato su una produzione industriale che non tenga conto dei vincoli ambientali e sanitari definiti al meglio delle conoscenze scientifiche. E dice che se pongo sui piatti della bilancia, da una parte l’economia e dall’altra l’ecologia, è la bilancia che si rompe. La teoria, infine, dice che i vincoli ambientali non sono necessariamente dei limiti, ma possono diventare fattori di innovazione e di sviluppo (sì, sviluppo non solo crescita) sostenibile sia da un punto di vista sociale che ecologico.
Cerchiamo di applicare la teoria punto per punto al caso Ilva, agganciando il nostro ragionamento a fatti empirici verificabili.
1) L’analisi scientifica dei dati ci dice che l’Ilva di Taranto ha inquinato nel passato e tuttora inquina, sia pure in misura molto minore. I chimici hanno verificato che ci sono ampi spazi contaminati: non solo in aria, ma anche in terra e in mare. E che le aree contaminate sono da bonificare. Gli epidemiologi hanno verificato che questo inquinamento ha prodotto in passato e continua a produrre effetti sanitari seri, anzi tragici. E che le cause di malattie gravi e di morti vanno rimosse.
Questa è la realtà scientifica, verificata dai migliori esperti italiani. In ogni altro Paese europeo e – come si diceva una volta – occidentale, non si fa a pugni con la realtà: la si accetta e si cerca di costruire, sui dati di fatto, un futuro desiderabile. Da noi c’è chi, pur di non riconoscere di avere la febbre, rompe il termometro. E così si cerca di gettare discredito su scienziati di grande valore, che il mondo spesso ci invidia e che lavorano a stretto contatto con organizzazioni internazionali.
2) Non è affatto scontato che una fabbrica che produce acciaio del tipo di quella di Taranto – a ciclo integrale, con convertitore a ossigeno – sia necessariamente inquinante: esistono tecnologie in grado di abbattere il tasso di emissioni di sostanze tossiche e pericolose entro i limiti fissati dalle norme europee.
3) Non è vero che la produzione “pulita” di acciaio è impossibile in un Paese a economia matura, con alto costo del lavoro e stringenti vincoli ambientali. Le tecnologie pulite vengono comunemente impiegate sia in Giappone, sia negli Stati Uniti, sia in Germania: rispettivamente al secondo, terzo e quarto posto nella classifica dei maggiori produttori mondiali (il primo produttore mondiale è la Cina). La Germania, in particolare, produce circa 45 milioni di tonnellate di acciaio, contro i 29 milioni di tonnellate dell’Italia (dati 2007). Il 70% della produzione, oltre 30 milioni di tonnellate, avviene con il sistema utilizzato all’Ilva di Taranto. Ebbene, anche questa produzione tedesca di acciaio non solo rispetta le normative europee, ma è assolutamente competitiva sui mercati mondiali. Tant’è che, assicura l’agenzia Fitch, è in aumento, dopo la crisi del 2008. Dunque, produrre acciaio nel rispetto dell’ambiente e della salute umana è possibile. Anche in Paesi a economia matura, con alto costo del lavoro e vincoli ambientali stringenti.
4) Altro dato empirico: abbiamo appreso nei giorni scorsi che l’economia tedesca ha ripreso a crescere, anche a ritmi più sostenuti del previsto, nonostante il resto d’Europa, Italia in testa, sia in recessione. Perché la Germania cresce e gli altri no? Il motivo non risiede nella politica finanziaria del Paese: l’economia tedesca cresce perché la sua industria tira. Sono aumentati, infatti, sia i consumi interni che le esportazioni di beni prodotti dalle industrie. Ma perché il sistema produttivo del primo Paese industriale d’Europa, la Germania, tira e quello del secondo Paese industriale d’Europa, l’Italia, no? I motivi sono diversi, ma di gran lunga il principale è che il sistema industriale tedesco punta sulla qualità, anche ambientale, del prodotto, mentre il sistema industriale italiano – dalla Fiat all’Ilva – cerca di competere muovendo, verso il basso, le leve del costo del lavoro e dei diritti sul lavoro delle deroghe alle norme ecologiche e sanitarie. In Germania il sistema industriale ha effettuato un salto culturale, accettando di fare i conti con la realtà: se una produzione inquina se ne prende atto e si cerca di intervenire senza nascondere la polvere sotto il tappeto, ma trasformando i “vincoli” in “opportunità di innovazione”, sia nei processi sia nei prodotti. Il che non significa “maggiori spese”, ma “maggiori investimenti” in ricerca e sviluppo. I frutti di questi investimenti e di questa cultura si vedono. Il Paese riesce ad avere, nel medesimo tempo, un ambiente migliore, minore disoccupazione, maggiori salari e a far crescere la propria economia mentre il resto d’Europa affonda.
L’Unità 18.08.12