Già, sarebbe bello ridurre le tasse. Nel caso si potesse, dovremmo stare attenti a quali. Di gran lunga più vantaggioso sarebbe abbassare il carico sulla parte più vitale della nostra economia, ossia sul lavoro dipendente, specie ai livelli bassi che più soffrono, e sulle imprese, specie per quanto concerne l’impiego di lavoro; come consigliato in più di una occasione dalla Banca d’Italia. Come principio generale, inoltre, sarebbe bene lasciar come sono le imposte più difficili da evadere, e intervenire al ribasso su quelle dove la frode è più facile. Si tratterebbe di decisioni da prendere a mente fredda, senza subito dar ragione a chi strilla più forte contro questo o quel tributo ritenuto particolarmente odioso o vessatorio.
Ma si può? Sappiamo tutti quanto la situazione dell’Italia sia difficile, e quanto ossessivamente venga tenuta d’occhio giorno per giorno dai mercati finanziari, pronti a ingigantire gli effetti di ogni passo falso. Sarà molto se si riuscirà ad evitare quel nuovo aumento dell’Iva, oltre l’attuale 21%, scritto nei piani che hanno guadagnato al nostro Paese l’appoggio delle istituzioni europee.
Per sostenere che si può, alcuni offrono una ricetta semplice. Basta tagliare sul serio le spese dello Stato, senza riguardi per nessuno – dicono – e si potranno calare le tasse senza accrescere il deficit pubblico che è il principale indicatore sul quale veniamo giudicati. Oggi l’attrattiva di questa idea si nutre del malessere diffuso contro i costi della politica e contro i visibili sprechi di denaro dei contribuenti.
Mettiamo per un momento da parte il fatto che in Italia questa ricetta è stata più volte e con gran clamore scritta in programmi elettorali, mai applicata dopo il voto. Meglio guardare quanto davvero sia stata applicata altrove e se abbia funzionato. Tra gli economisti resta aperto un dibattito talvolta aspro. Però due punti fermi si possono trovare. Il primo è che non fu così che Ronald Reagan trent’anni fa riuscì a rilanciare l’economia americana: ridusse le tasse, sì, le spese no. Il secondo è che tagliare le spese per tagliare le tasse ha funzionato senza controindicazioni in Paesi piccoli non circondati da un’area tutta in difficoltà.
Anche se si è convinti che in prospettiva è meglio avere «meno Stato», ossia meno tributi e minor impiego di denaro pubblico, non ci si può nascondere che nell’immediato anche i tagli alle spese aggravano la recessione economica. L’esempio ci viene oggi dalla Gran Bretagna. Per un certo tempo George Osborne, responsabile del Tesoro con l’antico nome di Cancelliere dello Scacchiere, si è vantato di aver adottato una politica economica «da manuale». Per risanare il bilancio pubblico stremato dal soccorso alle banche, il governo conservatore-liberale di Londra ha soprattutto tagliato le spese. La pressione fiscale è stata lasciata nel complesso stabile riducendo però le aliquote sulle imprese e sui redditi più alti, nella speranza di incentivare la voglia di intraprendere e di guadagnare. Il risultato è che il Regno Unito si trova in una recessione di gravità analoga a quella italiana; incrementi di produttività non se ne sono visti.
Stato ed enti locali italiani forse svolgono anche compiti che sarebbe meglio lasciare ai privati; di sicuro forniscono in maniera poco efficiente servizi ovunque considerati di natura pubblica. Rivedere a fondo tutto questo, e il funzionamento stesso di tutta l’amministrazione, dovrà essere un compito centrale dell’attività politica dei prossimi anni. Bisogna pretendere che avvenga. Non ci si può illudere che si tratti di una ricetta magica per uscire dalla recessione subito.