Quale legame c’è fra i trecentomila passeggeri lasciati a terra da WindJet e i settemila lavoratori dell’Ilva che rischiano di rimanere a casa se l’impianto di Taranto, come ha deciso il Gip, dovrà bloccare la produzione? Sono due facce dello stesso male italiano. Un male che nasce dalla mancanza di qualsiasi prevenzione, si alimenta di continui rinvii e rimpalli che rappresentano la negazione delle responsabilità amministrative e di governo, esplode infine nell’emergenza. Anzi, nell’emergenza di Ferragosto: una forma tipica e cronica della nostra patologia nazionale che ha la caratteristica di essere di solito prevedibilissima, ma che nonostante questo, anno dopo anno, allarme dopo allarme, si ripete come se fosse inevitabile.
Così è difficile stabilire adesso di chi sia esattamente la colpa dei passeggeri rimasti a terra negli aeroporti, sebbene avessero un biglietto pagato regolarmente e spesso anzi con mesi di anticipo.
Si può attribuire la responsabilità, o parte di essa, alla stessa WindJet, che già dal 2009 chiudeva i bilanci in rosso, all’Enac che sovrintende a tutta l’aviazione civile e non ha vigilato a sufficienza, all’Alitalia che ha scoperto solo all’ultimo di non potere o volere concludere la trattativa per l’acquisizione del concorrente in cattive acque.
Ma una certezza c’è: l’immagine drammaticamente negativa che il caso WindJet proietta nel mondo – con i bivacchi dei passeggeri, la Caporetto dei call center e i costi supplementari caricati su chi vuole tornare a casa – è devastante per l’intero comparto turistico italiano. I russi o gli israeliani accampati nei nostri aeroporti faranno comprensibilmente – i titoloni sui loro giornali. E su un settore fondamentale per la nostra economia come quello del turismo calerà ancora una volta un giudizio di inaffidabilità, senza che a Mosca o a Tel Aviv si faccia troppa differenza tra il fallimento di un singolo gestore aereo, le inadempienze di chi avrebbe dovuto vigilare, e l’inaffidabilità di un Paese nel suo complesso.
Paragonare la disavventura estiva dei viaggiatori al bivio drammatico dell’Ilva non deve suonare irriguardoso. Anche a Taranto la (non) scelta è stata quella di lasciar correre, di rimandare anno dopo anno la soluzione di problemi certamente complessi come quelli posti dall’enorme stabilimento siderurgico situato in città. Ma anche in questo caso i mesi, e prima ancora gli anni, paiono essere passati inutilmente: ci si ritrova in piena estate con una crisi potenzialmente esplosiva che offre pochi spazi di mediazione e favorisce soluzioni paradossalmente affrettate, sebbene arrivino con grandissimo ritardo. Difficile che dal braccio di ferro istituzionale innescato sull’Ilva tra magistratura e governo possano venire scelte mediate e meditate. E difficile, più in generale, affrontare la questione costretti dal solito meccanismo dell’emergenza agostana a una contrapposizione irrisolvibile come quella tra diritto alla salute e diritto al lavoro.
Anche in questo caso è più facile prevedere gli effetti su ampia scala dello scontro che va in scena a Taranto. Al di là di quello che sarà l’esito della vicenda il messaggio per chi avesse intenzione di investire in Italia è chiaro: da noi i problemi non si affrontano per lungo tempo, ma quando poi lo si fa le decisioni si accavallano l’una sull’altra, contraddittorie; a decidere – quando si decide – sono spesso poteri concorrenti, che con un semplice atto paiono poter rovesciare quanto stabilito solo poche ore prima.
Anche questo, non solo quello che ansiosamente seguiamo ormai ogni giorno sui mercati finanziari, è uno «spread», una differenza che penalizza l’Italia nei confronti di Paesi più affidabili. E anche su questo fronte rischiamo di pagare un prezzo assai tangibile – meno turisti nel nostro Paese, meno investimenti nelle nostre imprese – per colpa di un deficit che non si calcola in euro, ma in quella moneta assai più delicata che si chiama fiducia.
La Stampa 14.08.12