Voi Americani del cavolo! Ma chi vi credete di essere per poterci dire di non trattare con l’Iran?». Queste parole di fuoco, urlate, secondo le autorità americane, da un dirigente della Standard Chartered – la banca inglese indagata per riciclaggio del denaro iraniano -, hanno innescato la miccia nella relazione-dinamite tra New York e Londra. Le capitali del capitale sono ai ferri corti. Wall Street e la City – accomunate dalla passione per il denaro dei loro abitanti, ma sempre in lotta per diventare il centro internazionale della finanza – sono in rotta di collisione.
Il «casus belli» è inconsueto. Un’inchiesta a sorpresa di Ben Lawsky, un giovane procuratore di New York che questa settimana ha accusato Standard Chartered di aver «lavato» 200 miliardi di dollari iraniani in contravvenzione delle sanzioni Usa contro il regime di Teheran. La Standard Chartered nega tutto, ma la notizia ha scatenato un putiferio transatlantico. Boris Johnson, il popolarissimo sindaco di Londra, si è assentato dalle Olimpiadi per attaccare il «protezionismo finanziario» degli Usa. Alla sinistra di Boris, il parlamentare laburista John Mann ha accusato gli americani di «discriminazione anti-britannica». E persino Mervyn King, il pacato governatore della Banca d’Inghilterra, ha impersonato Tony Soprano, «consigliando» ai colleghi americani di andarci con i piedi di piombo nelle inchieste con le banche inglesi.
I britannici sono particolarmente sensibili in questo frangente perché altre due grandi banche – la Hsbc e la Barclays – sono state accusate dagli Usa di misfatti internazionali. Gli americani, dal canto loro, fanno finta di non capire le ramificazioni geopolitiche delle loro azioni, chiedendosi con falso stupore come mai gli inglesi abbiano reagito con tale virulenza ad inchieste di autorità giudiziarie indipendenti. Lawsky, in questo momento, è il nemico numero uno della City, ma le ragioni di fondo della tensione tra i due poli del sistema finanziario vanno ben al di là di un giovanotto che si crede Eliot Ness negli «Intoccabili».
Il bel Lawsky, con i suoi capelli alla Tom Cruise e i vestiti di ottimo taglio, è solo il simbolo della guerra fredda tra due città e due culture che sono con l’acqua alla gola sin dal terremoto finanziario del 2008.
Con i mercati allo sbaraglio, le economie in coma ed il settore bancario in ritirata, New York e Londra sono nel mezzo di una crisi d’identità. Disorientate e ferite, le due città si azzuffano per prendere quello che è rimasto del settore finanziario. «La recessione non ci si addice», mi ha detto un capo di Wall Street l’altro giorno. «Noi finanzieri siamo creature del boom. Quando la situazione peggiora non sappiamo più cosa fare».
Lo stesso si può dire delle città che ospitano questa strana razza umana: gente di grandissima intelligenza e ambizione, ma motivata quasi esclusivamente dal fare soldi. Ho passato gli ultimi vent’anni in tre capitali del denaro – Londra, Hong Kong e New York (con un interludio a Bruxelles) – e il filo conduttore è molto chiaro: la classe finanziaria ha la capacità di dominare, influenzare e snaturare un’intera città. Dai ristoranti ai taxi, dai prezzi delle case alla prostituzione, il potere dei signori in giacca e cravatta (e delle poche signore in tailleur) è immenso. 200 sterline per una «Ferrari infuocata», un cocktail con rum, Grand Marnier e Chartreuse? Non c’e’ problema. Appartamenti per 60 milioni di dollari con il campo di basketball privato? Subito, sir. Cocaina come se piovesse? Ma certo.
Nei periodi di boom, gli altri vivono di luce riflessa, tentando di servire quest’aristocrazia del dollaro (e della sterlina) o di diventare uno di loro.
Durante le crisi, però, quest’economia dell’eccesso non funziona più: i banchieri e gli operatori vengono licenziati, i ristoranti chiudono e anche gli spacciatori hanno poco da fare. E le città soffrono.
L’anno scorso, il settore finanziario ha contribuito con il 14 per cento alle entrate fiscali dello stato di New York, molto meno del 2010, quando un dollaro di tasse statali su cinque veniva da un banchiere o operatore di Borsa.
Il sindaco di New York Michael Bloomberg, che da buon miliardario di soldi se ne intende, lo ha spiegato bene: «Non torneremo più ai bei tempi, quando le tasse pagate da una Wall Street in stato di grazia coprivano tutti i debiti». A Londra, la situazione è simile, visto che un settore che contribuisce a quasi il 10% del Pil è in crisi ormai da anni.
E allora le due città lottano per accaparrarsi quello che possono: posti di lavoro, quartier generali delle banche, tasse.
Non è solo orgoglio nazionale che ha portato l’establishment britannico ad esplodere quando Lawsky ha chiamato Standard Chartered – una banca antica e all’antica – un’«istituzione-canaglia».
E’ stata anche la paura di essere visti come un posto dove i servizi finanziari sono sporchi, dove anche i pilastri più solidi del sistema, quale Standard Chartered, si stanno decomponendo. «Non vogliamo diventare la Las Vegas della finanza», ha protestato un banchiere inglese.
La realtà è che sia New York sia Londra sono sempre state un po’ Las Vegas, soprattutto nei periodi di vacche grasse. Per anni, la City si è offerta a banche ed hedge funds come la campionessa della «light-touch regulation», il posto dove le autorità di settore non disturbano più di tanto. E Wall Street, nonostante procuratori aggressivi come Eliot Spitzer e Ben Lawsky, ha spesso chiuso uno o due occhi sugli scandali e i peccati dei suoi abitanti. Tra i casi di «insider trading», il macello dei mutui subprime e le varie truffe finanziarie degli ultimi anni, New York non può proprio scagliare la prima pietra.
Indispensabili per il funzionamento del capitalismo mondiale, Londra e New York hanno scoperto di avere un altro elemento in comune: nessuna delle due è senza peccato.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
La Stampa 12.08.12