L’Italia perde lavoro, i ceti medi si impoveriscono, i nostri giovani hanno ancora meno opportunità dei loro coetanei in Europa, la Ue è tuttora incapace di compiere i passi necessari per difendere l’euro, ma di fronte a questa crisi – drammatica come mai nel dopoguerra – è immorale fuggire. Non ci si può rifugiare nell’opportunismo, nell’estremismo parolaio, nella demagogia. Bisogna rischiare, mettersi in gioco con un proposta di governo coerente, dare garanzie sugli impegni internazionali del nostro Paese, costruire le alleanze necessarie per modificare le politiche europee, puntare da subito e concretamente sulla crescita possibile, il che vuol dire anzitutto un piano straordinario per il lavoro, per la manifattura, per la ricerca. È una questione morale, che pesa sulla politica non meno della lotta contro la corruzione, contro l’illegalità, contro le logiche di occupazione del potere.
Perché la moralità della politica sta in primo luogo nella sua capacità di servizio, e dunque nella sua efficacia. Se oggi la politica è disprezzata, ciò dipende dalla sua impotenza di fronte al dominio della finanza e dei mercati, dall’incapacità di rispondere alle domande sociali La politica impotente è più esposta alla corruzione, alla contestazione dei suoi privilegi, alle dinamiche autoreferenziali e di cooptazione. Ma la frattura che si è determinata con gran parte della società ha la sua ragione prima nell’estrema debolezza dei governi. L’ideologia mercatista ha conquistato la politica, sottraendole la spina dorsale.
In questo passaggio di portata storica il compito del centrosinistra, della sinistra, è quello di ricostruire il nerbo della politica. La sua ragione sociale. Il suo scopo. La sua moralità, che consiste nel ricongiungere la propria azione con i valori dell’uguaglianza, dell’equità distributiva, delle pari opportunità, dello sviluppo attraverso il rispetto dell’ambiente e la migliore qualità della vita e del lavoro. Solo una politica vitale può riattivare un circuito di partecipazione democratica. Senza spina dorsale invece non c’è politica, resta soltanto un ribellismo individualista, ancora più funzionale al primato e all’ideologia del mercato.
Moralità della politica vuol dire presentarsi ora con trasparenza e spirito di verità. Dire ciò che è possibile fare subito e ciò che invece va costruito, insieme, nel tempo. Senza nascondere che la crisi economica è dura, che non si tornerà comunque al punto di prima, che per difendere il nostro modello sociale dovremo essere capaci di innovare, anche di sacrificarci per restituire un po’ di futuro ai nostri figli. Dovremo farlo investendo. Rafforzando l’idea di pubblico (che non vuol dire «statale»). Soprattutto rafforzando l’idea di comunità nazionale. Come nel dopoguerra si può vincere solo attorno ad un’idea di comunità, ad un senso nazionale (ed europeo), ad una missione capace di coinvolgere più di una generazione.
Ma dire la verità costa. E, dopo un decennio quasi ininterrotto di antipolitica al potere, è difficile rompere con la demogogia e il populismo. È però arrivato il momento di farlo. Costi quel che costi, il centrosinistra che si candida a governare il Paese deve fare chiarezza. Deve avere coraggio. Deve dire che con i populisti non si può governare una fase così difficile. E non solo perché sarebbero d’impedimento verso politiche d’intesa con i progressisti europei, ma anche perché è arrivato il momento della responsabilità. Chi attacca Giorgio Napolitano e mostra disprezzo per gli equilibri costituzionali, si comporta come Berlusconi anche se si proclama radicale di sinistra. Chi giudica il governo Monti alla stregua del precedente esecutivo, lo fa per lucrare sul disagio sociale e per ricavarne qualche decimale in più nei sondaggi. Una politica immorale insomma, che ha in comune con la destra italiana quel tratto di estremismo verbale a cui non corrispondono mai scelte seriamente riformiste.
Il Pd appare oggi la sola forza in grado di sostenere un programma riformatore di governo. Non è un caso che tutti facciano il loro gioco sul Pd. Vendola e Casini sembrano disposti, pur con condizioni e modalità diverse, ad accettare una sfida di governo alternativa ai populismi. Ma si tratta comunque di un’impresa molto difficile. Chi spara contro, lo fa puntando sull’unica reale alternativa ad un governo di centrosinistra: cioè il prolungamento della grande coalizione, magari ancora sotto l’egida dei tecnici. I populisti di destra sperano così di rientrare dalla finestra nella stanza del potere declinante, i populisti di sinistra confidano in una rendita di opposizione da un sostanziale «commissariamento» dell’Italia. Sarebbe questo un esito «greco». Il governo Monti ha commesso errori e non tutte le sue scelte sono condivisibili, ma ha riportato l’Italia al tavolo dell’Europa e ora ci ha posti davanti a un bivio: o saremo capaci di ricostruire una democrazia competitiva, offrendo al mondo l’immagine di un Paese che sceglie tra alternative plausibili, oppure regrediremo allo stato precedente. Allora sì la sopravvivenza del governo dei tecnici sarebbe la vittoria postuma di Berlusconi e la certificazione definitiva dello stato di minorità dell’Italia.
In altre stagioni, per battere Berlusconi, il centrosinistra ha chiamato a raccolta tutte le forze disponibili. E poi ha scontato la paralisi determinata da spinte contraddittorie. Ora serve chiarezza. E coerenza. Non si potrà fare tutto e subito. L’azione del governo progressista deve innanzitutto consolidare la fiducia in Europa e l’alleanza delle sinistre continentali. Deve difendere la moneta unica e scegliere le sue priorità per riportare sviluppo: lavoro, istruzione, politiche industriali. Ridurre le tasse sul lavoro e aumentare quelle sulla rendita. Equità, anche a costo di scontentare potenti e diffuse corporazioni. È il momento della responsabilità anche per i cittadini italiani: del resto, ci vuole consenso per governare con un respiro lungo. La sconfitta dei populismi va sanzionata dagli elettori per essere efficace. Al centrosinistra tocca lanciare la sfida e provare qui la sua moralità politica.
l’Unità 12.08.12
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