I continui cambi di casacca dei parlamentari sono l’emblema del fallimento della seconda Repubblica. Sia che l’abbandono abbia motivazioni politiche (la disintegrazione voluta da Fini del partito padronale, gli spostamenti di Rutelli per aggregazioni neocentriste), sia che coinvolga una caduta del senso dell’onore del deputato, il trasformismo è una fenomenologia negativa del sistema. È palese il risvolto etico di certi passaggi di campo. Impressiona il prezzario ministeriale svelato da Pionati nel ricostruire la contromossa del Cavaliere in risposta alla mozione di sfiducia del 2010. Il transfughismo allora riguardò i candidati della società civile (Calearo) e le disinvolte operazioni dei seguaci di Di Pietro.
Un leader specializzato nel reclutare degli indignati deputati pronti a passare agli ordini del caimano (De Gregorio, Razzi, Misiti, Scilipoti).
La seconda Repubblica, con le sue pratiche di infinite migrazioni, ritorna alle consuetudini dell’Ottocento, perché sono stati disintegrati gli anticorpi del trasformismo: i partiti. Ovunque, nella vicenda storica dell’Europa, le piaghe del nomadismo degli eletti sono state curate con l’obbligo dei deputati ad aderire a gruppi parlamentari. Così i partiti ponevano termine all’età del deputato che operava come singolo e imprevedibile rappresentante della nazione. Quando però sono crollati i partiti, niente più è stato in grado di estirpare il male del trasformismo. Il maggioritario spinse gli spezzoni di partito ad allestire due grandi coalizioni. Sulla scheda si affrontavano due soli simboli. Dopo le urne però come per magia (nessuna riforma dei regolamenti parlamentari fu concepita per adeguarli al tempo muovo del maggioritario) in aula proliferavano i gruppi più variegati. La schizofrenia di un sistema che con la legge elettorale induceva alle alleanze forzate e con la conservazione degli antichi regolamenti parlamentari cantava l’inno della frantumazione produceva ingovernabilità e trasformismo.
Le coalizioni, rimaste come figure centrali anche con il Porcellum, che obbligava a stipulare intese insincere pur di aggiudicarsi il cospicuo premio, hanno imposto una politica liquida. Micropartiti personali erano indaffarati a trovare una marginale visibilità per conservare un potere di contrattazione, per racimolare risorse. Le due megacoalizioni che si sfidarono nel 2008 in aula poi partorirono 14 gruppi parlamentari, con analoghi diritti nei finanziamenti, nelle attrezzature, nella disponibilità di locali. Una radice del trasformismo si trova nella frizione tra una legge elettorale selettiva (che sospingeva ad aggrapparsi al soggetto coalizione) e dei regolamenti parlamentari disaggreganti favorevoli alle scomposizioni. All’apparenza di semplificazione sprigionata dal congegno elettorale ben presto seguiva la realtà della decostruzione della coalizione agevolata proprio da regolamenti che, con deroghe (al criterio numerico delle 20 unità risalente al 1919, quando però i deputati erano solo 508), nascondevano il detonatore che faceva esplodere il sistema.
È inutile ogni riforma elettorale se poi i regolamenti parlamentari restano ancorati ad assetti organizzativi del secolo scorso, e favoriscono, con licenze concesse persino a forze con meno di dieci seggi, la erosione delle coalizioni. E così il potere di investitura dei cittadini viene amputato dalla apparizione dopo il voto di gruppi, di nuove sigle sorrette attraverso scissioni, migrazioni, prestiti. La semplice clausola numerica dei 20 seggi da far valere a discrezione in aula (antica eredità dell’epoca liberale, con deputati notabili e senza partiti) presenta risvolti disfunzionali. Per arrestare la slavina della frantumazione dei gruppi (persino vantaggiosa alla maggioranza per avere il controllo delle commissioni, dell’ufficio di presidenza) occorre riconoscere il principio per cui solo i simboli offerti agli elettori sono legittimati a promuovere autonomi gruppi, e ad accedere ai finanziamenti. Se i partiti danno vita a una lista comune dovrebbero poi aprire un unico gruppo in parlamento.
Sono opportuni taluni vincoli nei regolamenti (divieto della facoltà di iscriversi a gruppi diversi da quelli di elezione, impossibilità di costituire gruppi tramite deroghe, autorizzazioni). Al trasformismo non c’è rimedio effettivo se però non ricompaiono grandi partiti. Il Parlamento dei nominati ha dovuto surrogare la morte dei partiti con le deteriori pratiche dei maxi emendamenti, dei decreti legge omnibus, delle raffiche di voti di fiducia. Dopo il Parlamento delle compravendite ci sarà spazio per il parlamento dei partiti ritrovati?
L’Unità 11.08.12
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