Faceva fatica a parlare, con il sangue che usciva dal naso spaccato. «È stato mio padre, mi ha preso a calci e pugni, anche quando ero già a terra. Mi odia da anni, da quando gli ho detto che io non voglio portare il velo e che voglio essere io a decidere la mia vita». L’hanno trovata su un marciapiedi di una delle cattedrali del consumo, l’ipermercato GrandEmilia di Modena. «Non vedevo mio padre da anni — ha raccontato S. H. alla polizia — perché dal 2008 sono in una comunità protetta. Quando per caso l’ho visto al supermercato, ho avuto paura. Già tante altre volte avevo preso delle botte, perché non ero una brava musulmana e perché non volevo sposare un uomo che non avevo mai visto». Gli agenti della Volante arrivati all’iper martedì verso sera hanno trovato la ragazza, una marocchina di 22 anni, nell’ufficio dei vigilanti. Hanno messo a verbale le sue dichiarazioni e poi hanno raccolto le testimonianze delle persone che avevano visto il pestaggio. «Tutto si è svolto in un attimo, ma i colpi sono stati pesanti. È vero, la ragazza ha preso anche dei calci. A picchiare è stato un uomo che poi è salito in auto ed è andato via». Una corsa al pronto soccorso, almeno 21 giorni di prognosi. Il padre della ragazza — B. H., marocchino di 58
anni, operaio in un macello — è stato denunciato per lesioni aggravate.
La storia nasce nel paese di Peppone e don Camillo ma purtroppo non ha un lieto fine. «Quello che fa male — dice il sindaco Giuseppe Vezzani — è il fatto che non siamo di fronte a una follia improvvisa. La ragazza era seguita dai servizi sociali da sette anni, da quattro era in comunità. Nonostante il nostro impegno, non siamo riusciti a proteggerla ». Anche altri pezzi dello Stato non sono rimasti alla finestra. I carabinieri sono entrati spesso nella casa del marocchino, appena fuori il paese. Le cronache raccontano che il primo allarme arriva nel gennaio 2005. La ragazzina S. ha quindici anni, è seguita da un insegnante di sostegno per un deficit mentale. La scuola avverte i militari perché S. ha segni di percosse in faccia e sul collo. Sei giorni di prognosi, al pronto soccorso. In un pomeriggio del maggio 2008 S. viene trovata sulla strada provinciale, con addosso un pigiama fatto
a pezzi. Ha un ematoma oculare e altre lesioni. Prognosi di 15 giorni. «È stato mio padre, stavolta vuole che sposi un marocchino», dice ai carabinieri, e mima l’aggressione picchiandosi sugli occhi. «Ecco, ha fatto così».
La ragazza viene portata in comunità, il padre è denunciato. Ma da un documento del maggio di quest’anno — relativo alla richiesta di cittadinanza italiana da parte di B. H. — risulta che le denunce sono state «archiviate per infondatezza delle notizie di reato». I servizi sociali continuano a seguire la famiglia, perché B. H. ha altre quattro figlie. «Non hanno mai denunciato maltrattamenti. Comunque, a parte la più piccola, portano tutte il velo».
Una casa appena fuori dal paese, la parabola per seguire la tv marocchina. A., 24 anni, è la sorella più grande. Chiama subito la madre, che come il marito è qui da vent’anni e non parla italiano. A. invece si è diplomata e frequenta l’università. «Per caso? All’iper di Modena siamo andati in tre, io, mio padre e mia madre. Ci ha chiamato una donna marocchina che da due mesi ospita mia sorella a casa sua. Ci ha detto che non la voleva più, perché stava tutto il giorno alla stazione a non fare nulla. “Venite a prenderla, non ne posso più”. E allora siamo partiti. Mio padre non ha aggredito S., non l’ha mai fatto. Lei, appena ha visto papà, si è messa a gridare. “Vai
via, se no compro il veleno e mi uccido. No, mi butto sotto questa macchina”. E si è messa a correre. Mio padre ha cercato di fermarla è lei è caduta e si è spaccata il naso».
La madre cerca di farsi capire a gesti. Si picchia continuamente sulla tempia sinistra e la figlia traduce. «Mia sorella purtroppo è malata, la testa non le funziona bene. Se vede un uomo e pensa che sia un uomo buono subito gli dice: “vengo con te”. I servizi sociali se la sono presa e poi l’hanno abbandonata. Ecco, guardi questo foglio. Come si fa ad accettare una dichiarazione come questa? ». Carta intestata dell’Associazione Marta e Maria di Modena, convitto Agave, 28 maggio 2012. «Dichiaro di voler lasciare volontariamente l’associazione ». Le consegnano le sue cose: un libretto con 3.614 euro, un computer portatile, due confezioni di anti depressivi. «Se ha bisogno di quelle medicine, perché l’hanno lasciata andare?».
La Repubblica 11.08.12