In questa fase difficile per l’economia del mondo, è cruciale l’andamento della congiuntura in Cina. Ieri hanno preoccupato dati e stime che mostrano debolezza sia nelle esportazioni che nelle importazioni cinesi. Meno export è un brutto segno per l’Europa e gli Usa: è un riflesso della loro crisi, che li fa comprare meno, anche dai cinesi. Meno import ricorda il pericolo che il quadro globale si aggravi perché si inceppa il motore dei Paesi emergenti e, in particolare, dell’estremo oriente. Le debolezze dei due opposti flussi commerciali cinesi ci ricordano quanta interdipendenza ci sia nell’economia mondiale e come sarebbe bene riprendere gli sforzi per governarla insieme. Dopo la crisi del 2008-2009 si era avviata una fase promettente di cooperazione globale, molta attività del G20 e di un tentativo di G3 informale, per rafforzare i rapporti fra Cina, Ue e Usa. Ma quella fase si è interrotta: le regioni e le nazioni si sono ripiegate su se stesse, chiuse in difesa. E’ cresciuto dappertutto il protezionismo, più o meno esplicito; la Cina lo ha subito e lo ha usato aggressivamente; il mondo, anche quello emergente, si è andato segmentando anziché integrarsi; invece di rafforzare la cooperazione nelle sedi multilaterali, come il Wto, si sono moltiplicati accordi bilaterali, che spesso ruotano attorno a relazioni politiche nocive allo sviluppo globale.
Non è questo il modo migliore per beneficiare delle straordinarie potenzialità dell’economia cinese, né per indurre la Cina a fare quel che deve per rendere la sua crescita più solida e sostenibile nel tempo. Va rilanciata la diplomazia economica globale, rinfrescandola con nuove idee. Sia gli Usa che la Cina designeranno i loro numeri uno in autunno: speriamo che i nuovi leader, insieme ad un’Ue più unita, rilancino subito il triangolo dello sviluppo globale.
D’altro canto, non c’è per ora alcuna chiara evidenza che la congiuntura cinese stia franando.
Sono quasi sette trimestri che il Pil rallenta, ma la crescita prevista per i prossimi due anni è ancora attorno all’8%. Le stime sull’import-export di luglio sono provvisorie e basta guardare giugno per trovarle molto migliori. L’aumento della produzione industriale comunicato ieri rimane prossimo al 10% annuo. I consumi delle famiglie crescono più del 13% e gli investimenti fissi più del 20%. C’è allarme perché il credito interno è cresciuto meno del previsto, ma in parte si tratta di un fenomeno voluto, per frenare bolle speculative immobiliari che, fra l’altro, la Cina sta mostrando di controllare abbastanza bene. La sua politica macroeconomica è attenta, ha lo sguardo lungo, precede i problemi, mira alla sostenibilità. Le autorità hanno ben presenti i problemi strutturali del Paese, compresa la formidabile corruzione e l’immane inquinamento.
L’eccesso di surplus commerciale con l’estero è stato corretto: l’avanzo corrente è sceso in quattro anni da più del 10% del Pil a meno del 3%. E’ così sbollita la polemica sulla sottovalutazione dello yuan con la quale, soprattutto da parte degli Usa, si sono create a lungo inutili tensioni diplomatiche e confusa la natura delle questioni da affrontare insieme.
Il vero problema macroeconomico cinese non è la congiuntura del Pil: fra l’altro le condizioni della finanza pubblica sono tali che Pechino potrebbe compensare in ogni momento crolli dell’attività nel resto del mondo con forti aumenti di spesa in disavanzo. Il problema cinese è invece la composizione del Pil: consiste nella necessità di accelerare molto i consumi interni, riducendo il risparmio e frenando l’eccessiva spesa in investimenti.
L’avanzo con l’estero si è ridotto soprattutto perché si sono ancor più accresciuti gli investimenti fissi, giunti a sfiorare la metà del Pil. Ciò ha beneficiato i Paesi specialisti nell’esportare beni d’investimento, come la Germania: si stima che il 10% in più di investimenti in Cina aumenti dell’1% il Pil tedesco. Ma troppi investimenti accumulano capitale e infrastrutture inutili e rendono più fragili le prospettive della crescita cinese.
Vanno invece aumentati i consumi, soprattutto di servizi, come i trasporti e le assicurazioni, ma anche di beni durevoli di qualità medio-bassa. Ciò cambierebbe la natura e la provenienza delle importazioni cinesi: un fenomeno da monitorare e gestire a livello globale. Sarebbe inizialmente un problema, ma potrebbe divenire un’opportunità, anche per l’Ue.
Per la Cina aumentare molto i consumi interni è anche un problema politico. Vuol dire aumentare i salari nei molti settori dove sono ancora troppo bassi, ridistribuire profondamente il reddito, rimediare a quello che è ormai un clamoroso eccesso di vari generi di diseguaglianza. Significa accrescere i consumi pubblici, soprattutto migliorando il welfare (pensioni, sanità, scuole), la cui scarsezza è una delle ragioni per cui le famiglie cinesi risparmiano tanto. Ma tutto ciò cambia delicati rapporti di potere fra centro e periferia, fra gruppi politici e burocratici, fra modernizzatori e innovatori. Basti pensare alle grandi imprese pubbliche dove hanno radici molti degli squilibri interni e, nello stesso tempo, forti poteri conservatori.
Ieri, assieme alle notizie congiunturali, c’è stata quella della lettera al comitato centrale del partito comunista dei 1600 dirigenti e intellettuali conservatori che chiede immediate dimissioni del premier. Probabilmente vuol dire che il premier sta operando attivamente per la modernizzazione della Cina e che ciò crea forti tensioni politiche. Potrebbero essere queste il vero collo di bottiglia della crescita cinese? E’ difficile rispondere, ma è naturale supporre che un forte aumento della cooperazione globale aiuterebbe i leader cinesi più capaci e pronti alla modernizzazione. Mentre un Occidente che con la Cina è fra il distratto, il sospettoso e il difensivo, aumenterebbe i problemi dello sviluppo economico e politico, sia cinese che mondiale.
La Stampa 11.08.12