Grazie signora Idem. Per la gioia di questa mattina di sole al castello di Windsor, per aver indicato sorridendo i cigni prima di partire ché una finale olimpica è una finale olimpica, sì, ma la bellezza dei cigni qui accanto, guardate Grazie per essere uscita dalla gara da combattente ed essere tornata nella vita da regina, un attimo dopo, coi figli in braccio e il sorriso radioso a dire «tutti devono sentirsi comodi nello sport, quelli che vincono e quelli che perdono. Stasera con mio marito beviamo un bicchiere di vino, che dopo tutti i cereali che abbiamo mangiato ce lo meritiamo davvero». I cigni, il vino. Le lacrime che scendono sole mentre dici, ridendo, «non siate tristi per me. È stato un sogno bellissimo da vivere insieme. Chiudo solo la porta delle gare: la vita è ancora tutta da vivere». Janek, 17 anni, che ascolta e fa sì con la testa.
Cinquecento metri in kayak in un minuto e 53 secondi, una fatica che tutti noi qui nel pubblico non ce la possiamo nemmeno immaginare, 48 anni, 8 Olimpiadi, 2 figli partoriti fra una e l’altra, «un’anatra di piombo» ti dicevano a vent’anni in Germania, a 36 oro olimpico con l’Italia grazie a un marito che ami e che ti ama, poi Atene, poi Pechino, poi Londra, qui, ora, tre decimi di secondo dal bronzo, un’esitazione in partenza, «penso sempre troppo, sono stata un attimo in più a guardare l’arrivo», un peluche che ti guarda all’arrivo nelle mani di Jonas, 9 anni, quella partenza un po’ lenta «non è che le faccio apposta, è che non so far altro che così», la sudafricana che non te l’aspettavi, arriva nella coda dell’occhio ed è un istante, lo sguardo al tabellone, quinto posto, gli amici da Ravenna che urlano davanti alla tv, Guglielmo che è già a riva per riprenderti e tu che ti fermi, invece. Ancora un momento, ancora un minuto. Ancora un po’ in questo specchio d’acqua da sola. A far durare al rallentatore l’ultimo fotogramma di 35 anni in acqua, una carriera magnificente, la più bella storia di sport italiano a queste Olimpiadi: la storia di Sefi Idem che lascia lo sport senza una parola di meno né una di più, senza una parola sbagliata. Tutte, una per una, da ricordare nella prossima storia, quella che comincia qui.
«Sono felice perché ero in gara, avete visto. Venivo da due anni terribili, nona ai mondiali 2010 e settima nel 2011, quest’anno non ne parliamo, in acqua mi sentivo una zattera. Però avevo mio marito che mi spronava, e i figli, e i ragazzi del circolo Aniene che hanno sacrificato le vacanze per allenarsi con me allora ho pensato allo slogan di queste Olimpiadi, “inspire a generation”. Ho pensato che sì, possiamo davvero con l’esempio ispirare i giovani ma anche ho pensato alla mia generazione: non è mai troppo tardi per mettersi in gioco, si deve e si può. E alle madri vorrei dire: ci facciamo troppi sensi di colpa alle volte. I figli ci amano per quello che siamo». Grazie all’Italia, dice, che «non mi ha mai chiesto di farmi da parte perché ero vecchia, in Germania quando ero quinta a vent’anni ero già fuori», grazie a voi giornalisti «che avete sostenuto me e questo sport così faticoso. Non siate severi con Schwazer, ha fatto un grandissimo errore, è rimasto da solo con la sua paura e ha sbagliato. Ma io lo capisco quando dice che aveva la nausea: a 24 anni ero pronta a smettere, avevo un allenatore autoritario, l’inverno in acqua fa freddo. Avevo nausea. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste. È stato, il mio col kayak, un matrimonio combinato: l’amore è venuto dopo. Le Olimpiadi sono sempre entusiasmanti. Purtroppo arrivano ogni quattro anni…». Eppure c’è chi dice che sono un trionfo dei nazionalismi, le Olimpiadi. «Ma no, Grillo è un patacca», uno sbruffone in romagnolo, che è l’italiano di Josefa: «È pieno di atleti nati altrove che gareggiano per l’Italia, è bello per questo. È una ridicolaggine, l’avrà detto per approfittare del palcoscenico olimpico. Non andiamo mica a invadere, a fare le guerre: è una festa, gareggiare. Un gioco. Non mi piace chi denigra i sogni degli altri». E i suoi, di sogni, Sefi? «Io ho sognato con voi, abbiamo sognato insieme. Ora vorrei restituire allo sport qualcosa del molto che mi ha dato. No, non penso a poltrone… mi vengono i brividi. Penso a scrivere. Janek mi aiuterà. Vorrei raccontare le storie di chi ha perso, perché vincere è facile: è quando perdi che devi essere davvero un campione ». È quando perdi. «Vedete, sono in quel punto della vita che se le cose vengono o non vengono non cambia: non è per la gara che sono meno felice. Lo sono molto». La sua famiglia la porta via, adesso. L’ultima foto sono loro quattro abbracciati, di spalle, che si parlano all’orecchio nel viale che costeggia le acque. In tutti i sensi, la più elegante uscita di scena mai vista: il profilo che si allontana, il lago dei cigni
di Windsor.
La repubblica 10.08.12