«La prima cosa che intendo dire all’Italia e all’Europa è che noi siamo quelli dell’euro, siamo quelli dei governi Prodi, Amato, D’Alema che fecero fede in condizioni difficili a tutti i patti internazionali, europei e occidentali, che siamo quelli di Ciampi e Padoa Schioppa». Pierluigi Bersani sa che la sfida più grande per lui è ormai arrivata. Mancano sette-otto mesi alla chiusura della legislatura, ma ormai la corsa in vista delle elezioni è partita. Chi vuole avere chance per andare al governo deve mettere sul tavolo le carte migliori che ha a sua disposizione. Bersani è tra i più accreditati. Lui lo sa. E ha scelto il Sole 24 Ore per provare a spiegare agli elettori italiani, all’Europa e ai mercati perché devono fidarsi del centro-sinistra dopo i buoni risultati del governo Monti.
Bersani, per cominciare, non c’è il rischio che i prossimi mesi siano occupati dalla campagna elettorale, proprio mentre il Paese è ancora chiamato a scelte difficili?
«E’ intanto utile, in questi mesi che ci avvicinano fisiologicamente ad un appuntamento elettorale, come avviene in tutte le democrazie del mondo, dare messaggi molto chiari sui temi di fondo: lealtà al governo Monti, lealtà verso il grande obiettivo europeo, responsabilità nella tenuta dei conti, nella riduzione del debito e nella costruzione di un avanzo primario. Contro ogni deriva regressiva e populista intendiamo fare barriera forte. Detto questo, vogliamo arrivare all’appuntamento elettorale dicendo la nostra, sull’Europa e sull’Italia».
Partiamo dall’Europa, deve fare di più. Ma come e in che direzione?
«L’Europa così come gira non va bene. Io credo innanzi tutto che il dibattito con le opinioni pubbliche europee vada spostato dalle tecnicalità economiche al tema di fondo che è culturale e politico. Il patto iniziale fu la riunificazione della Germania dentro una Europa forte. Se si rompe quel patto andiamo verso l’incognito. Purtroppo in questi anni abbiamo visto diffondersi, sotto l’influsso della globalizzazione, un’ideologia di destra per cui chi è forte pensa che chi è debole gli stia svuotando le tasche. E’ un’ideologia pericolosa, l’abbiamo vista anche nelle reazioni all’intervista di Monti, al di là della frase più o meno felice sui parlamenti».
Lei come ha valutato quella frase?
«Forse andrebbe ricordato a Monti che in Italia magari puoi dire qualsiasi cosa del Parlamento, ma in giro per il mondo ci sono delle democrazie…».
Intanto il clima con la Germania diventa sempre più teso. E’ giusto secondo lei attribuire ai tedeschi responsabilità su quello che sta avvenendo?
«Non va bene fare guerre con la Germania. Noi paesi cosiddetti periferici dobbiamo riconoscere che dopo l’euro non abbiamo fatto i compiti a casa, non abbiamo approfittato dell’abbassamento dei tassi. Secondo me questo è avvenuto per responsabilità di Berlusconi, ma come Paese dobbiamo riconoscerlo. La Germania deve riconoscere, però, che tutto quel che ha guadagnato dall’euro, ed è tantissimo, può anche perderlo e che una famiglia non si salva ammazzando qualche familiare. Quindi va fatto valere un discorso di corresponsabilità. Solo così l’Europa farà passi avanti e li farà fare a tutti noi».
L’Italia ha fatto i suoi compiti a casa?
«Abbiamo fatto molto. Ma è venuto il momento, e noi lo faremo da subito se saremo chiamati a governare, di mettere al centro delle nostre preoccupazioni l’economia reale. Quand’anche avessimo tutti gli scudi anti-spread del mondo, se l’economia reale viaggia in questo modo, non ce la caviamo. La recessione che abbiamo davanti è di dimensioni preoccupanti. Dobbiamo fare ogni sforzo per la crescita, o almeno per contrastare la recessione. Magari sui conti pubblici teniamo, ma qui rischiamo di arretrare decisamente nelle quote mondiali di produzione e lavoro. Nelle esportazioni i margini si vanno assottigliando. Il mercato interno è fermo. Così rischiamo una riduzione strutturale della nostra base produttiva. Allora nei famosi compiti a casa va data priorità a quella che potremmo definire, in senso esteso, politica industriale, che per me vuol dire politiche anche politiche per i servizi o l’agricoltura».
Il governo non fa abbastanza?
«Diciamo che per ora c’è attenzione non sufficiente. Ma il problema viene da lontano. Per troppo tempo abbiamo assistito inerti allo spostamento di investimenti dall’economia reale alla finanza. Dobbiamo invertire la rotta. Siamo un sistema di piccole e medie imprese, dobbiamo averne cura. Io rimpiango, per esempio, la dual income tax, il credito d’imposta per la ricerca, le prospettive tecnologiche dell’industria per il 2015. Se avessimo tenuto su queste misure forse non saremmo a questo punto».
Il governo ha rinunciato a ripristinare il credito di imposta sugli investimenti in ricerca…
«E invece va fatto. Quando io ci lavorai immaginavo uno strumento che doveva insediarsi come strutturale: gli imprenditori devono sapere che è un incentivo a disposizione per anni e senza rubinetti di sorta che creano sfiducia e incertezza».
Su quali settori è giusto puntare?
«L’Italia deve fare l’Italia. Deve puntare innanzitutto sulle sue tradizioni, tipicità, sul patrimonio del made in Italy. Poi deve portare tutto questo alle frontiere tecnologiche nuove. Quindi l’efficienza energetica, le tecnologie del made in Italy, le scienze della vita, le tecnologie per i beni culturali, e così via. Intanto la burocrazia e i mille cavilli d’Italia bloccano spesso gli investimenti».
Cosa fare?
«Bisogna agire certamente su alcune condizioni del contorno: dalla giustizia civile alle duplicazioni amministrative. Ma io ho una mia idea sul rilancio degli investimenti industriali, quello del riuso delle aree industriali».
Un buco nero fino ad oggi in Italia.
«Ed è una grande opportunità. Oggi in Italia abbiamo una quantità enorme di metri quadrati di aree dismesse, di fatto bloccate dai costi di bonifica e da pastoie burocratico-amministrative. Dobbiamo introdurre un meccanismo anche finanziario che risolva il problema delle bonifiche e permetta con dei patti d’insediamento qualche accelerazione da un punto di vista amministrativo e autorizzativo».
Resta il problema più ampio della pletora di autorizzazioni e controlli che rendono impossibili spesso gli investimenti.
«E qui io penso che la via è quella di esternalizzare: ci sono una serie di funzioni che riguardano le attività produttive che possono essere affidate ad un’autocertificazione rafforzata da parte di professionisti assicurati, così l’amministrazione pubblica si concentra sui controlli».
Cos’altro ha in mente quando parla di nuova politica industriale?
«Ci sono tanti strumenti da rivedere: siamo a posto con le procedure straordinarie, leggi Prodi 1 e 2, la legge Marzano? Secondo me no. Vogliamo discutere sulla cassa integrazione speciale? Mi va bene che tassativamente non ci siano proroghe ma nel sistema industriale italiano è un errore buttare via uno strumento così».
E’ giusto usare anche la Cdp per fare politica industriale? E con che ambiti?
«Credo sia utile come riferimento nelle società delle reti e va bene il volano per le infrastrutture. Ma io sarei più ambizioso nel riconsiderare questo fondo strategico che non si capisce bene cosa faccia. Noi abbiamo un sistema di medie imprese, quelle che innovano, investono, si internazionalizzano, che adesso sono piene di impegni con le banche. Allora io dico: con partecipazioni minoritarie, in modo selettivo, è inimmaginabile un fondo misto di partecipazione dove transitoriamente CDP, le banche trasformando temporaneamente i loro crediti, siano impegnati in operazioni non di salvataggio, ma di supporto?».
Sulla banda larga continuiamo ad avanzare solo con piccoli passi.
«Lì ci vuole una forte regia del Governo. E sono convinto che CPD deve essere messa al servizio via via di una soluzione combinata, soluzione che guardi al progetto paese. Sulla banda larga nel 2008 noi avevamo lasciato una dote di 900 milioni, con quelle risorse diciamo che l’accordo con Telecom si sarebbe potuto trovare più facilmente».
La produzione automobilistica in Italia continua ad arretrare. Il Governo farebbe bene a convocare Marchionne?
«La diplomazia economica dei governi è importante. Io ho sempre detto che l’unica soddisfazione certa di un ministro è che se chiami un interlocutore questo deve venire. Poi può dire quello che vuole, ma deve venire e dirtelo. Qui c’è un po’ di debolezza del Governo. Su Fiat, ma anche su Finmeccanica dove lo Stato è proprio azionista. Ma la decisione sugli investimenti in Italia tocca alla Fiat non al Governo. Io credo che bisogna chiamarli e chiedere: vi impegnate voi o no? Perché Fiat già ci ha condizionato già una volta negli anni 80 bloccando la possibilità di altri ingressi. Se hanno tutti gli stabilimenti in cassa integrazione, non possono bloccarci nei prossibili sviluppi dell’industria automobilistica in Italia. Qui bisogna essere molto seri e molto chiari».
Lei ha capito che fine ha fatto il piano Fabbrica Italia?
«Io non ho mai capito cosa fosse e quindi non ho mai capito dove è finito. Si è imbastita una polemica tra Marchionne e Fiom e si è perso di vista l’aspetto industriale vero. Se Fiat non ce la fa meglio i tedeschi che nessuno. Ma io sono complessivamente preoccupato che un pezzo di Paese vada in controllo estero. Su Ansaldo energia e su Ansaldo trasporti per esempio eviterei di perdere il controllo».
Come vede la situazione dell’Ilva?
«La decisione presa martedì consente sviluppi positivi. I temi ambientali, attenzione, sono temi veri. La politica industriale richiede risorse, così come il rispetto degli impegni Ue. Nel momento in cui vi proponete per governare il Paese dovete dire dove prendete i soldi. Sui tagli di spesa si puo procedere, ma con il cacciavite. Io vorrei smontare l’assioma o taglio o tasse. Spesso a un taglio corrisponde una sorta di tassa che magari viene pagata dagli italiani più deboli in termini di servizi. Bisogna mirare i tagli agli sprechi veri, altrimenti deprimi il mercato e metti le mani nelle tasche degli italiani».
Altre fonti di risorse?
«Riequilibreremo i carichi fiscali. Ma soprattutto: noi al netto del ciclo siamo tra i Paesi messi meglio. Senza toccare l’avanzo primario, bisogna trovare con l’Europa un minimo meccanismo di elsticità».
Cambiare i patti?
«No, solo un calcolo del ciclo fatto con buon senso. Da vedere con la Commissione. Se poi arrivasse un po’ di sollievo sui tassi… Le operazioni di politica industriale non costano moltissimo. E io darei priorità a un’altra questione: con il governo Prodi non eravamo in crisi e spendevamo 2,5 miliardi di fondo sociale, oggi con la recessione è ridotto a 150 milioni. Non c’è teoria, per quanto liberista, al mondo che non consideri che in epoca di recessione devi rispondere con spesa sociale. Farei una task forze con enti locali e terzo settore per affrontare questa questione e frenare con la sussidiarietà le tendenze disgregative. Anche così si fa comunità».
Siamo tornati a misure di spesa. Lei ha ribadito gli impegni europei, ma poi quando si parla del problema fondamentale delle risorse necessarie allo sviluppo e a centrare quegli impegni c’è troppa genericità».
«Rispondo così: guardiamo la storia. Quando si è trattato di controllare la spesa corrente abbiamo fatto meglio noi della destra. Per un motivo semplice: conosciamo meglio l’amministrazione e la macchina di governo».
Sugli enti locali si può tagliare ancora?
«Bisogna vedere di cosa parliamo. L’enorme pletora di consorzi e società miste va sbaraccata. Quello lì è un grosso risparmio. Poi bisogna ridurre il carico di impiego pubblico in una forma che lavori sul turn-over in modo intelligente. Tipo: ogni amministrazione deve ogni tre anni fare un piano industriale, qualcuno glielo certifica, se lo realizza gli do il 50% del turnover altrimenti no. Ecco un altro risparmio. Poi vanno alienati beni pubblici. Ma in forma realistica: quando sento parlare di 400 miliardi, dico: eravate lì potevate farlo. Ma come lo declina Grilli o come lo dice Astrid sicuramente si puo fare».
A proposito di dove reperire le risorse non mi ha ancora parlato di patrimoniale…
«La nostra posizione è quella di un contributo dei grandi patrimoni immobiliari. Credo che non sia una bestemmia. Aggiungo che, a proposito di dove prendo i soldi, noi sull’evasione dobbiamo fare di più. Serve la Maastricht della fedeltà fiscale: arrivare all’obiettivo più tre o meno tre di fedelta fiscale rispetto all’europa. Come ci si arriva: attraverso la deterrenza certamente, come si fa negli Usa, ma soprattutto attraverso banche dati incrociate. Se noi avessimo quelle a regime non solo recupereremmo risorse, ma avremmo la possibilità di graduare le politiche sociali in base al reddito. Non voglio fare Robespierre ma serve trasparenza».
Ma non pensa che con l’Imu già oggi la tassazione su chi ha più immobili è molto alta?
«Credo che per i patrimoni più ingenti ci possa essere qualche contributo in più, potenziando un po le esenzioni per chi ha di meno».
Proviamo a individuare la rappresentanza sociale di un suo eventuale governo.
«Lavoro dipendente che fa il suo dovere, professioni che accettano la modernizzazione, l’intellettualità e la creatività italiana, gli imprenditori che fanno il loro mestiere e credono alla loro impresa. Ci metto anche il ceto medio impoverito. Isolo invece come avversari tutte le posizioni di rendite a qualsiasi livello, le ricchezze e i patrimoni che rifiutano la solidarietà. L’accordo con la Svizzera va fatto, per dirne una, perché bisogna raggiungere la ricchezza mobile che si occulta. E come avversario ci metto anche la politica che costa e non realizza. E infine le grandi retribuzioni che sono scandalose».
Non si preoccupa quando Vendola apre a Casini a condizione che “rinunci alle politiche liberiste, mercatiste e rigoriste” appoggiate in questi anni?
«Le aggettivazioni ognuno le sceglie come vuole. Che però in questi dieci anni in Italia e in Europa si sia permesso che l’egemonia finaziria dominasse su tutto è stato un problema».
Ma Vendola mi sa che facesse riferimento più al Casini che appogia Monti che ad altro….
«Io ho già detto che la continuità con Monti sarà la salvezza di un’Italia che è europea e europeista. Che sta ai patti finché i patti non si cambiano e migliorano. Quindi la dignità di un Paese che sa qual è il suo destino. Dopodiché io convengo sul fatto che in Europa e in Italia noi dobbiamo dare più attenzione al lavoro. Altrimenti non c’è rigore che ci salvi».
Ma non è un’umiliazione per la politica fatta dai partiti in questi anni che un governo tecnico abbia fatto in pochi mesi una serie di riforme di cui si parlava da anni e non realizzavano?
«Qualcuno dice che tra il 96 e il 98 si sono viste liberalizzazioni e politiche industriali più incisive di quelle fatte ora».
Sulle liberalizzazioni gioca in casa, ma sul resto?
«Sulle pensioni abbiamo fatto molto».
Anche qui negli anni 90. Ma nell’ultimo governo Prodi siete tornati indietro sullo scalone…
«Giustamente credo, la gradualità nelle riforme serve. Come si è dimostrato con la vicenda degli esodati».
Bersani, insisto, perché questo è il punto: in Europa e sui mercati c’è preoccupazione per un ritorno di Berlusconi, ma anche di un centro-sinistra bloccato sulle riforme dai veti politici e sindacali.
«E’ un pregiudizio. La nostra è una politica intenzionata a chiedere il consenso della gente dicendo come prima cosa che siamo in una crisi seria e che serve responsabilità. Ma io rifiuto l’affermazione che il governo Monti abbia fatto più riforme dei governi politici di centro-sinistra. Se poi le riforme sono solo l’articolo 18…».
A proposito, sulla riforma del lavoro rimetterete le mani?
«Sì. Il mercato del lavoro va sicuramente reso più efficiente. Ma il dibattito sull’articolo 18 è un dibattito interno ideologico. Il problema vero è comunque quello della produttività: e qui siamo carenti in investimenti, ambiente di contorno, rigidità organizzativa ed eccesso di precarietà. In questo senso io credo che la questione del lavoro vada vista anche dal punto di vista dei contratti. E qui sono un convinto sostenitore di uno spostamento verso l’ambito aziendale, preservando però una base di omogeneità nazionale. Dare flessibilità organizzativa a fronte di investimenti esigibili: questa è la pista da percorrere».
Ma l’alleanza con Casini si fa prima o dopo le elezioni?
«Dipenderà anche dal sistema elettorale. Io ho in testa un’area progressista aperta che non è solo partiti. Che sia in condizioni, prima o dopo le elezioni, di lanciare un appello di collaborazione a tutte le forze europeiste, antipopuliste e costituzionali. Poi credo nei vincoli che ci siamo dati nella carta d’intenti per governare insieme: si decide a maggioranza quando non siamo d’accordo».
Il Sole 24 Ore 09.10.12