Il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato un parere sul fondamento e la portata dell’obiezione di coscienza. Sulla richiesta, cioè, del singolo di essere esonerato da un obbligo previsto dalla legge, perché ritiene che tale obbligo contrasti con la propria coscienza e sia lesivo di un suo diritto fondamentale. Il Comitato ha affermato che l’obiezione di coscienza in materia bioetica costituisce un diritto della persona costituzionalmente fondato sui diritti inviolabili dell’uomo; un diritto però che va esercitato in modo sostenibile, così da non limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti ad altri dalla legge.
Il parere affronta specificamente questioni di bioetica e in particolare quelle derivanti dall’esistenza di diverse concezioni sull’inizio e la fine della vita umana e quindi sulla portata del diritto fondamentale alla vita.
Le argomentazioni sviluppate dal Comitato per fondare le sue conclusioni, sono particolarmente complesse e spesso opinabili nei vari passaggi. Ma è certo condivisibile la conclusione che l’obiezione di coscienza, in certe circostanze e in certi limiti, deve essere riconosciuta dalla legge, per non entrare in collisione con il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (art.19 della Costituzione) o, come più compiutamente afferma la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art.9), di veder rispettata la propria libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Da questi diritti costituzionali viene normalmente tratto il fondamento della richiesta di riconoscimento della obiezione di coscienza. E l’ultima Carta dei diritti fondamentali, in ordine di tempo, quella dell’Unione Europea, espressamente prevede all’art.10, come corollario della libertà di pensiero, coscienza e religione, il dovere degli Stati di riconoscere l’obiezione di coscienza disciplinandola con le leggi nazionali.
Il Comitato ritiene anche che il riconoscimento legale della obiezione di coscienza sia un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili (nella specie il diritto alla vita). Ci si potrebbe esprimere in modo diverso, riconoscendo semplicemente che vi sono materie in cui non vale il principio di maggioranza o piuttosto che esso trova limiti e freni nel riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui e delle minoranze. Tra questi vi è il diritto di mantenere e veder rispettati i propri diversi orientamenti filosofici, etici e religiosi. Donde la difficoltà di legiferare, con la pretesa della maggioranza che si esprime in Parlamento di dettar legge in via generale, senza eccezioni e senza spazio per il dissenso. La legge italiana riconosce la possibilità di evitare attività contrarie ai dettami della propria etica o religione in materia di interruzione volontaria della gravidanza e di procreazione medicalmente assistita (oltre che nella sperimentazione sugli animali).
Ma lo spazio lasciato al dissenso dei singoli non può mettere nel nulla o render difficile per gli altri il godimento dei diritti riconosciuti dalla legge o più in generale impedire il funzionamento di un servizio pubblico. Donde la necessità di contemperare esigenze contrapposte o, come scrive il Comitato, di tener conto della possibilità che l’obiezione di coscienza possa “essere piegata a strumento di sabotaggio nelle mani di minoranze fortemente organizzate oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli”. E’ necessario allora prevedere una disciplina dell’obiezione di coscienza “sostenibile” con la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento del personale che ricorra alla mobilità del personale. Il Comitato suggerisce anche di ricorrere a forme di reclutamento differenziato, in modo da equilibrare il numero degli obiettori e dei non obiettori e così assicurare il servizio previsto dalla legge. Si tratta di un’indicazione molto importante, che merita qualche sviluppo. L’obiezione del libero professionista che si astiene dal praticare certi trattamenti sanitari, ritenendoli contrastanti con le proprie convinzioni etiche, è cosa diversa da quella di chi liberamente sceglie di operare come dipendente di un ente pubblico, che ha come missione specifica quella di fornire al pubblico un servizio il cui contenuto è definito dalla legge. Un bando di concorso per un posto in un ospedale pubblico che descriva le mansioni che il vincitore sarà chiamato a svolgere implica evidentemente da parte dei concorrenti l’accettazione del relativo dovere e l’esclusione di obiezioni. L’obiezione di coscienza che taluno avanzi nei confronti di questa o quella specifica attività dovrebbe portarlo a non partecipare al concorso e a orientarsi professionalmente altrove. In proposito si può pensare al testimone di Geova che rifiuti di praticare trasfusioni di sangue e tuttavia pretenda di partecipare a un concorso per un posto di chirurgo in un ospedale pubblico. Va anche aggiunto che la riserva mentale di obiettare successivamente e sottrarsi così allo svolgimento delle mansioni oggetto del concorso, sarebbe inammissibile e contrasterebbe con il dovere di chi si è visto affidare funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore (art.54 della Costituzione). Né concorsi per posti pubblici così definiti sarebbero discriminatori poiché l’orientamento etico o religioso dei singoli avrebbe solo rilevanza per le scelte libere di ciascuna persona. Altro discorso evidentemente si dovrebbe fare se ci si trovasse nel diverso caso di attività imposte a tutti dalla legge, com’era il servizio militare prima dell’abolizione della leva obbligatoria.
Tra i numerosi aspetti discussi dal Comitato, uno ancora merita di essere ricordato per la sua importanza. Il Comitato precisa che il tema e i problemi della obiezione di coscienza non riguardano il diverso campo della libertà costituzionale del singolo individuo – non più il sanitario, ma il paziente – di definire e gestire i suoi interessi, diritti e valori in tema di salute; libertà che lo Stato deve rispettare. Il Comitato fa l’esempio di una norma che imponesse a un testimone di Geova, per la tutela della sua stessa salute, di sottoporsi a una trasfusione di sangue che egli rifiuta secondo i precetti della sua religione. In realtà la ragione del rifiuto è irrilevante, poiché nella sfera del singolo, come riconosce l’art.32 della Costituzione, prevale l’autonomia individuale. Allo stesso modo, afferma il Comitato, è irrilevante per lo Stato la ragione che spinge taluno, anche attraverso dichiarazioni anticipate, a rifiutare qualunque altro tipo di trattamento.
La Stampa 09.08.12