Difficoltà politiche e nebulosità tecnica del dibattito sulla riforma della legge elettorale rischiano di far dimenticare il punto di partenza: mai come in questa legislatura si era assistito allo spettacolo di un Parlamento in cui masse di eletti si spostassero dalla maggioranza all’opposizione e poi di nuovo dall’opposizione alla maggioranza, cambiando partito e anche fondandone di nuovi per l’occasione.
Dalle elezioni del 2008 a oggi sono infatti ben 161 i parlamentari che dopo il voto hanno cambiato gruppo almeno una volta. Ma buona parte di loro ha compiuto il viaggio a più riprese (a essere rigorosi, per calcolare esattamente il tasso di trasformismo bisognerebbe dunque moltiplicare il numero dei transfughi per la loro velocità di circolazione, che è altissima). Il tentativo di riformare il nostro sistema deve fare i conti anche con questi problemi. Non per niente il dibattito sulle riforme istituzionali, e sulla riforma della legge elettorale in particolare, si protrae, con poche interruzioni, da oltre vent’anni.
L’intera storia della Seconda Repubblica ne è scandita implacabilmente: referendum, progetti votati in bicamerale e abbandonati in Aula, riforme votate in Aula e bocciate dal referendum, quesiti sottoscritti dai cittadini ma bocciati dalla Consulta, approvati dalla Consulta ma fermati dal quorum: l’elenco delle battaglie che in questi vent’anni si sono combattute attorno ai diversi modelli e ai relativi feticci (lo «spirito del bipolarismo», la «religione del maggioritario», lo «spettro della proporzionale») potrebbe riempire una biblioteca.
A ripercorrere questa lunga e travagliata storia dai primi referendum Segni all’inizio degli anni Novanta fino alle schermaglie di oggi, però, balzano subito agli occhi alcune evidenti contraddizioni. Contraddizioni stridenti, in particolare, tra la retorica che ha accompagnato ciascuno di quei passaggi (dalla proporzionale al maggioritario, dal Mattarellum al Porcellum) e gli effetti concreti delle soluzioni adottate. In breve, tra previsioni e risultati.
L’esempio più clamoroso è offerto proprio dalle ultime elezioni, salutate da un coro assordante come il trionfo della logica del maggioritario e dello spirito del bipolarismo, come il coronamento della Seconda Repubblica: un sistema ormai praticamente bipartitico, in cui la scelta di Pd e Pdl di “correre da soli”, unita al meccanismo violentemente polarizzante della legge elettorale, con il suo ricco premio di maggioranza, sanciva la fine di tutti i mali storici del nostro sistema politico. Frammentazione, opacità, trasformismo, potere di ricatto delle formazioni minori (e loro moltiplicazione): tutti quei mali che il bipolarismo maggioritario aveva combattuto sin dai primi anni Novanta, senza riuscire tuttavia a debellare.
La nuova era del sistema «tendenzialmente bipartitico» salutata da tanti commentatori all’indomani delle ultime elezioni si è chiusa come ognuno può vedere da sé. Il potere dei cittadini di scegliere insieme la maggioranza, il governo e il premier non ha impedito che il governo guidato da Silvio Berlusconi venisse messo in crisi dalla secessione di un pezzo della sua maggioranza e del suo stesso partito, che dopo avere incassato il premio di maggioranza decideva con piena legittimità di passare all’opposizione. E se nonostante questo il governo Berlusconi non cadeva era solo perché al tempo stesso, come si ricorderà, un nutrito gruppo di parlamentari eletti con i partiti di opposizione decideva con piena legittimità di passare in maggioranza. D’altra parte, tutto questo non ha comunque impedito che a Palazzo Chigi, qualche tempo dopo, andasse un presidente del Consiglio e un intero governo scelto dal Parlamento senza passare da nuove elezioni, con una maggioranza formata da partiti che alle ultime elezioni si erano fieramente combattuti.
La vera novità della Seconda Repubblica e in particolare di questa legislatura, almeno dal punto di vista della rilevanza statistica, è la straordinaria proliferazione di partiti nati in Parlamento. In altre parole, in nome del diritto dei cittadini a scegliere direttamente governo e maggioranza, contro lo spettro proporzionalista delle alleanze fatte e disfatte in Parlamento dopo il voto, non solo i cittadini non hanno scelto né l’attuale governo né l’attuale maggioranza, ma nemmeno i partiti. La vera novità sono i parlamentari che dopo le elezioni si scelgono il partito, o meglio ancora, che dopo aver preso i voti con il Pd o il Pdl, la Lega, l’Udc o l’Idv, ne fondano uno tutto nuovo direttamente in Parlamento. Magari per poi ripensarci qualche giorno o qualche mese dopo. Nelle varie legislature della famigerata Prima Repubblica i partiti presenti in Parlamento erano generalmente otto o nove in tutto, i cambi di campo molto rari, il gioco di scomposizione e ricomposizione di partiti mai apparsi fuori del Parlamento (come i vari «Responsabili») semplicemente sconosciuto. Solo in questa legislatura i parlamentari che hanno cambiato gruppo almeno una volta sono 161. Molti lo hanno fatto più volte (il tragitto statisticamente più seguito è il classico Pdl-Fli-Pdl, ma non mancano molte interessanti varianti). Alcuni, subentrando solo successivamente come primi dei non eletti dei rispettivi partiti, al gruppo parlamentare del suddetto partito non si sono iscritti nemmeno per un giorno (in qualche caso, che potremmo qualificare forse come scappatella parlamentare, ci hanno ripensato dopo, iscrivendosi al gruppo del partito in cui erano stati eletti solo diversi mesi dopo il loro ingresso in Parlamento). Ma non mancano casi di autentica bulimia, capaci di cambiare gruppo parlamentare ogni tre o quattro mesi.
Evidentemente, di fronte a questi fenomeni, non c’è legge elettorale che tenga, se prima non si approva una norma che preveda l’impossibilità di costituire gruppi parlamentari che non corrispondano alle liste votate dagli elettori. Senza con questo intaccare il principio costituzionale dell’indipendenza del singolo parlamentare, eletto senza vincolo di mandato (nulla impedisce infatti al dissidente di uscire dal proprio gruppo e confluire nel gruppo misto). Norme che vadano in questa direzione sono state abbozzate da tutti i partiti. Si tratta ora di toglierle dal mucchio delle diverse proposte e controproposte complessive e approvarle subito, come precondizione per qualsiasi riforma (tanto più se la nuova legge elettorale prevedesse delle soglie di sbarramento, per ovvie ragioni). Quello che serve subito, insomma, è una norma semplice e chiara contro lo scilipotismo, esito ultimo e paradossale del nostro bipolarismo forzoso. Fosse anche l’unica norma a essere definitivamente approvata, sarebbe già qualcosa.
L’Unità 09.08.12
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