«Tutti, non solo i lavoratori, devono capire e cambiare. Compresi i giovani, che devono rendersi conto che un posto di lavoro non è qualcosa che ottieni per diritto ma qualcosa che conquisti, per cui lotti, per cui puoi anche dover fare sacrifici». Nonostante i tentativi di smentita, sono queste le parole di Elsa Fornero nell’intervista a The Wall Street Journal del 27 giugno scor-o (riscontrabili nell’originale su wsj.com). Ci si può semmai chiedere quanto siano compatibili con queste altre parole: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»: l’art. 4 della Costituzione italiana.
Fornero è comunque in ottima compagnia. Tutta una tradizione di pensiero ha attribuito ai diritti sociali, in primis al diritto al lavoro, status incerto e debole prescrittività. Non si tratta solo dei liberisti, che non perdono occasione per riaffermare che i «veri» diritti fondamentali sono quelli civili – a cominciare dalla proprietà – o tutt’al più ad ammettere i diritti politici all’elettorato attivo e passivo. E neppure solo dei liberali pro- gressisti come John Rawls, che escludono i diritti sociali dai constitutional essentials. Perché c’è una tradizione di critica «da sinistra» dei diritti sociali come costruzioni illusorie. Espressa lucidamente, qualche anno fa, da Danilo Zolo: «Il diritto al lavoro, anche quando è sancito a livello costituzionale, resta nei sistemi ad economia di mercato un diritto non justiciable – e cioè non applicabile da organi giudiziari con procedure definite – perché nessuna autorità giudiziaria è in grado di comandare ad alcuno, si tratti di un soggetto pubblico o di un soggetto privato, di offrire un posto di lavoro a qualcun altro».
Anche Luigi Ferrajoli, che pure si è impegnato strenuamente per «salvare» i diritti sociali come diritti fondamentali, si arrende davanti al diritto al lavoro. A differenza di altri teorici, a cominciare da Kelsen, per Ferrajoli l’assenza di garanzie non significa che un diritto fondamentale non esiste, ma piuttosto che c’è una lacuna: è l’ordinamento a doversi adeguare, introducendo norme che rendano effettivo il diritto in questione. Ma questo vale in modo molto limitato per il diritto al lavoro. Ferrajoli auspica un «nuovo garantismo giuslavorista» che dovrebbe opporsi ai processi di precarizzazione del lavoro, a partire da una «restaurazione (…)delle sue tradizionali garanzie». Che sono comunque «garanzie negative della conservazione, e non già garanzie positive dell’offerta di un posto di lavoro». La via è sganciare dal lavoro la garanzia della sussistenza, con l’introduzione del reddito minimo garantito. Insomma, il «cosiddetto diritto» al lavoro non è un diritto: «l’inattuabilità di una simile figura ne vanifica il significato deontico e ne esclude perciò il carattere di “diritto”. Ad impossibilia nemo tenetur».
Ci si potrebbe chiedere se siamo davvero di fronte ad un’impossibilità logica. E soprattutto, cosa resta della Costituzione se salta il diritto(-dovere) al lavoro, autentica architrave della sua costruzione sistematica? In ogni caso, verrebbe a mancare il progenitore dei diritti sociali in quanto diritti rivendicati dai potenziali titolari, non in quanto concessi paternalisticamente dalle autorità; un diritto reclamato già nelle piazze e sulle barricate nella Parigi del 1848. Karl Marx è noto per la sua critica ai diritti dell’uomo e del cittadino contenuta nella Questione ebraica. Ma qualche anno più tardi, nel 18 brumaio, scriveva che «dietro al “diritto al lavoro” stava l’insurrezione di giugno», rilevando che lo sviluppo dei diritti fondamentali presuppone radicali trasformazioni sociali ed economiche e richiede la mobilitazione dei soggetti sociali. È quanto ha sostenuto Norberto Bobbio riconducendo l’origine dei diritti ai processi collettivi di rivendicazione, alla lotta per fare emergere nuove libertà contro vecchi poteri, che configura una «rivoluzione copernicana»: la possibilità di guardare al potere dal basso, ex parte populi.
Ma allora, cosa sono i diritti? Si riducono a un fascio di tutele e di obblighi garantiti dall’ordinamento a determinati soggetti? O c’è un qualcosa di più, un contenuto che eccede, non solo simbolicamente, i doveri correlativi? In alcune interpretazioni, da Ernst Bloch a Joel Feinberg, è come se l’origine dai processi di rivendicazione si riverberasse sul significato dei diritti; come se permettesse loro di esprimere l’affermazione della dignità umana, l’«alzarci in piedi da uomini»: «Get up, stand up, stand up for your rights», cantava Bob Marley. C’è di più: il linguaggio dei diritti veicola tutto questo in una forma giuridica, che permette appunto di individuare garanzie di tutela. Ma se le cose stanno così, se c’è una priorità ed un’eccedenza di senso dei diritti rispetto alle garanzie corrispondenti, il fatto che io non possa andare da un giudice a chiedergli un posto di lavoro non significa che parlare di «di- ritto al lavoro» sia un nonsenso.
Tutelare il diritto al lavoro richiede una serie complessa di norme e di provvedimenti. Forme di integrazione monetaria del reddito del tipo del salario di ingresso possono essere opportune. Ma credo si debba tornare a dirlo: è rilevante se il reddito è il risultato di un’attività produttiva e sociale, oppure no; se – come finisce per fare Ferrajoli – si riduce il diritto al lavoro ad una garanzia di sopravvivenza, oltretutto risolvibile in elargizione monetaria, c’è il rischio di negare al mondo della produzione il carattere di spazio pubblico, di misconoscerne la dimensione politica: alcuni «accordi» sindacali (si pensi all’esclusione dalle aziende di importanti organizzazioni e dei loro iscritti) e disposizioni legislative del recente passato potrebbero venire interpretate in questo senso. E si rischia di sottovalutare il rilievo del contributo al «progresso materiale e spirituale della società» nell’esperienza esistenziale delle persone, a fortiori nell’epoca della disoccupazione pervasiva e della precarietà sfrenata. La tutela del diritto al lavoro richiede norme contro i licenziamenti arbitrari, contro le discriminazioni nell’accesso al lavoro e così via (sul modello, per capirsi, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori). Ma rimanda anche a politiche di redistribuzione del tempo di lavoro mediante una sua diminuzione e una diversa articolazione.
Tutelare il diritto al lavoro significa insomma porre le condizioni perché un posto di lavoro non sia una «conquista», il risultato di una strenua lotta fra individui e di gravi sacrifici.
L’Unità 04.08.12