Si è detto mille volte in questi giorni: con l’Ilva è in gioco non solo il più grande impianto siderurgico europeo e la più grande fabbrica di lavoro del Sud, dopo lo Stato, ma un pezzo fondamentale dell’industria italiana. Il 45% della domanda di acciaio del sistema manifatturiero nazionale è soddisfatta da questo stabilimento, che rifornisce, dalle lamiere per le grandi casi automobilistiche europee (Fiat e Volkswagen) sino ai tubi per gli oleodotti siberiani. Eppure c’è un altro tema che l’intricata questione solleva con forza. Quello di ripensare quale debba essere il ruolo dello Stato, conseguente a scelte della politica, nel gestire la transizione dell’industria. Nessuna esperienza come quella dell’Ilva permette di leggere come proprio le scelte della politica, nel bene e nel male, abbiano determinato le diverse fasi della sua lunga storia. Lo stabilimento è un gigante che ha attraversato la storia industriale e politica italiana: che è stato prima fiore all’occhiello dell’industrializzazione di Stato, poi è sopravvissuto alle inefficienze della fase conclusiva delle Partecipazioni Statali e che, infine, con la privatizzazione e il passaggio agevolato al gruppo Riva, è riuscito a ristrutturarsi e a rientrare nel mercato. Una ristrutturazione irrisolta, che ha consentito all’azienda di riprendere a creare profitti e posti di lavoro ma che non ha diradato le nubi nere, non solo metaforiche, di una irrisolta questione ambientale. Seguendo un principio, già smentito dalla crisi finanziaria, del «too big to fail» – troppo grande per essere chiusa – una simile questione, la cui gravità è stata già da tempo evidenziata dalla magistratura, è stata trascurata e lasciata alla sola iniziativa delle comunità locali e, negli ultimi anni, della Regione. Solo in un Paese come il nostro, dove la foga liberalizzatrice ha cancellato dal perimetro delle politiche pubbliche la politica industriale, si può essere messi di fronte al bivio terribile e inaccettabile tra diritto alla salute e lavoro. Non c’è e non ci può essere scambio tra salute e occupazione, ma occorre, e si può, rendere compatibile la sopravvivenza di un grande impianto moderno con le ragioni dell’ambiente. Ciò richiede non fughe o chiusure di imprese, ma il reimpiego del valore prodotto attraverso il lavoro in investimenti pubblici e privati in tecnologie e ricerca (politiche industriali, insomma) che migliorino la qualità dei prodotti e riducano le emissioni inquinanti. In un clima difficile e in un contesto nazionale distratto, la Regione Puglia in questi ultimi anni, attraverso interventi normativi che prevedevano limiti di inquinamento assai più severi di quelle vigenti, ha reso possibile, in un confronto anche aspro con l’azienda, sensibili miglioramenti nelle emissioni di diossina (abbattute del 90%), inducendo l’Ilva ad investire oltre 1 miliardo di euro per l’innovazione in campo ambientale. Occorre ora capire se il gruppo Riva sia intenzionato a proseguire in questa direzione. L’intervento emergenziale, pur necessario, del governo che ieri ha stanziato 336 milioni di euro per la riqualificazione ambientale, non appare sufficiente. Non modifica lo scambio ineguale tra azienda che fa profitti e lo Stato che ripara i danni di uno sviluppo insostenibile. La sfida ora è più alta e più difficile. La rilevanza strategica per l’intero comparto manifatturiero nazionale dello stabilimento e il suo peso sull’economia locale è tale da richiedere un progetto a lungo termine per quest’area. Un progetto che può arrivare anche alla sperimentazione di forme di cogestione pubblico-private. Una nuova fase in cui si potrebbero sperimentare esperienze, diffuse in altri Paesi, a partire dalla Germania, in cui si realizzino forme di intesa tra capitale e lavoro, sempre più necessarie in un economia globalizzata. Il sindacato, a Taranto come in altre aree del Paese, si è dimostrato pronto a rispondere alla domanda di responsabilità. Ora sta alla politica riuscire a trovare i contenuti di una strategia che preveda interventi di politica industriale e anche queste forme di cogestione. Le prospettive di sopravvivenza e sviluppo di Taranto sono legate alla costruzione di un cammino virtuoso e sostenibile che poggi su uno sviluppo industriale in grado di creare risorse per investimenti tecnologici per la riduzione dei costi ambientali, e su un sistema normativo che alzi l’asticella della compatibilità ambientale con meccanismi di controllo pubblico severi e trasparenti a tutela della salute dei cittadini. Sta dunque alla politica in primo luogo, superando l’emergenza determinatasi con l’intervento della magistratura, creare le condizioni per un nuovo protagonismo pubblico che, senza richiamare esperienze passate, riassuma la permanenza delle nostre imprese in settori strategici con la tutela del diritto al lavoro e quello della salute dei cittadini
L’Unità 04.08.12