Gli integralisti che ancora cercano di spaventare le donne con il velo spedendo insulti via twitter forse dovrebbero guardarle meglio in azione. Non si spaventano più. Sono sicure, consapevoli del messaggio che mandano, determinate e abbastanza furbe da fare la rivoluzione senza danni collaterali. Un centimetro alla volta. Date un’occhiata alla sprinter afghana Tahmina Kohistani, ultima nei 100 metri ma da una vita nella corsia di sorpasso. Lo stadio di Londra era pieno e lei non si è distratta, è abituata al pubblico perché a Kabul, dove si allena, ci sono sempre centinaia di persone a vederla. A fischiarla. Sperano di metterle paura, spostarla dalla pista e confinarla a casa. Lei corre, li semina e quasi sempre li stanca. Chissà che faccia ha fatto il tassista che una volta si è rifiutato di portarla fino al campo quando l’ha vista alle Olimpiadi. E lei non si è limitata a gareggiare, ha pure girato uno spot: «Scusate per il tempo, migliorerò. Ma le ragazze afghane devono aiutarmi. Non voglio essere sola nel 2016».
Una volta le atlete infagottate scatenavano l’applauso triste, quello che sembra partecipe e in realtà sottolinea la diversità. Ieri Tahmina è passata inosservata, Londra è multietnica e certo non si sorprende però sono proprio i Giochi, il mondo, che hanno assorbito il concetto. Esistono realtà differenti, donne che scattano dai blocchi con il foulard e la tuta lunga vicino a quelle con la mutanda sgambata e il micro body mostra ombelico. Tahmina sa che 100 metri in diretta tv non bastano per evitare i buu dentro la pista di casa: «Comunque il governo mi ha appoggiato, la mia famiglia non mi ha mai proibito nulla e siamo tutti musulmani osservanti. Ci saranno sempre difficoltà, bisogna solo continuare a muoversi». Bello slogan, con tanti saluti a chi pensava che non avrebbe retto la contestazione.
Wojdan Ali Seraj Abdulrahim Shaherkani fa più fatica a integrarsi nell’universo a cinque cerchi, lei è la prima saudita che ha l’accesso ai Giochi. Ha un nome che suona come una filastrocca e il capo coperto, nel judo ancora un inedito. Un minuto per farsi eliminare e un giorno per ripetere: «Sono fiera di rappresentare il Regno dell’Arabia Saudita», esserci è già trasgressivo, non serve sbagliare il copione con appelli alla libertà. La sua foto sul tappeto parla da sola. Come lo sguardo di Bahia Al Hamad tiratrice del Qatar, portabandiera di una nazione che ha sempre bandito le donne e ora si lascia rappresentare da una che spara. Tosta, porta il velo tirato e mira aggressiva. Chissà cosa vede nel bersaglio, magari il futuro che costruisce un colpo dopo l’altro: «Emozionata no, solo felice di esserci». Come se cambiare la storia fosse naturale. Invece ogni volta cade un altro confine: entrare, esistere, integrarsi. La prossima frontiera è vincere.
La Stampa 04.08.12