Morire di diossina o morire di fame? a Taranto molti vivono così il lacerante dilemma creatosi dopo che la magistratura ha deciso di chiudere le aree «a caldo» del più importante centro siderurgico italiano. La gravità dei dati tarantini sulle malattie respiratorie, sulla diffusione dei tumori è incontestabile. Ma le alternative occupazionali all’Ilva (gruppo Riva) – 12.000 dipendenti diretti e altri 6.000 nell’indotto – sono per ora quasi inesistenti. Il vecchio Arsenale è ormai ridotto ai minimi termini. Il sogno di un porto-containers strategico nel Mediterraneo – per il quale si era speso Prodi – è impallidito mesi fa col trasferimento al Pireo di alcune grandi navi di Evergreen e di Hutchison. L’agro-industria e il turismo, balneare e culturale, sono stati ridimensionati dalla «nuvola di smog» che grava sul territorio (la Regione ha proibito il pascolo nel raggio di 20 Km dall’enorme fabbrica). C’è «allarme rosso» per coltura dei mitili: tonnellate di cozze «alla diossina» sono state gettate. Un cortocircuito. Operai e sindacati difendono disperatamente la grande fabbrica, in origine Italsider, nata male, purtroppo. L’industria di Stato reclutò alcuni dei migliori cervelli per pianificarla. Per la parte urbanistica un maestro come il torinese Giovanni Astengo. La pianificazione deragliò subito però davanti alla scelta, fondamentale, dell’area. La proposta del tarantino ingegner Nino Mignogna che collocava il colosso sul fiume Tara a 7 Km. dalla città fu battuta per la fortissima, sconsiderata pressione operata sulla politica dai proprietari fondiari locali che lo volevano in una zona loro, disastrosamente vicina alla città, senza risorse idriche sufficienti. Per cui anche ora l’Ilva deve captare acqua dal Mar Piccolo devastato sul piano ambientale. Ed erano luoghi esaltati in antico da Virgilio e da Orazio che avrebbe voluto finire la propria vita qui, in riva al fiume Galeso. Le crisi mondiali dell’acciaio hanno ridimensionato in passato il centro siderurgico, poi privatizzato, gettando su piazza centinaia di disoccupati. Braccia di disperati per la malavita locale divenuta molto aggressiva col clan dei Modeo (160 morti ammazzati in pochi anni) e tuttavia debellata, sia pure con grande rischio e fatica, da giudici e forze di polizia. Una storia scritta con incisività dal magistrato Nicolangelo Ghizzardi e dal giornalista Arturo Guastella in «Taranto tra pistole e ciminiere», Icaro-Città Futura (2010). Una piovra criminale cresciuta proprio sulla disoccupazione di massa. Vicenda terribile che nessuno in città vuole rivivere. Si può risanare, riconvertire lo stabilimento siderurgico di Taranto? Si può preservare una quota di produzione siderurgica fondamentale per l’Italia secondo Federacciai? Il ministro dell’Ambiente, Clini, promette 336 milioni per la riqualificazione ambientale e ritiene possibile un «patto per Taranto», con una cabina regionale di regia. I fondi tuttavia non sembrano sufficienti: sono altamente inquinanti i depositi di minerali, qui scoperti, e in Giappone, invece, previsti in partenza coperti. Copertura molto costosa, certo, ma unico rimedio contro le polveri, contro il micidiale Pm5. Ridurre l’impatto ambientale dunque si può, anche se i costi industriali risultano elevati. Mentre, al momento, è irrealistico mandare a casa migliaia di dipendenti, diretti e indiretti, gettare sul lastrico migliaia e migliaia di famiglie che da quei faticati salari dipendono. Il porto-containers, con Evergreen di Taiwan e Hutchison Wampoa di Hong-Kong, può venire rilanciato sulle banchine di Taranto, ma esige investimenti rapidi, sicuri e consistenti: per fondali più profondi, per vaste aree attrezzate, per una ferrovia Taranto-Bari potenziata, per il quinto sporgente e altro ancora. Dunque anche la potenziale alternativa alla siderurgia costa, richiede scelte di fondo. Napoleone capì per primo l’importanza di questo antico scalo in funzione della rotta per l’Egitto. Tanto più importante oggi per l’oltre-Suez, per l’Oceano Indiano. Da quella scelta militare nacque più tardi l’Arsenale ed ora può rinascere il porto. Ma nessuno regala niente, anche nella concorrenza marittimo-portuale.
l’Unità 02.08.12