I bolognesi non vanno mai in vacanza prima del 2 agosto. La città cambia improvvisamente, nell’arco di ventiquattro ore: prima è gonfia di persone, poi, di botto, deserta. Fino al 1980, oggi era semplicemente una giornata di partenze e arrivi, valigie pesanti e bagagli leggeri. Ma da 32 anni a questa parte, invece, il 2 agosto è solo «Strage». 85 morti e 200 feriti. Nessuno parte e nessuno arriva. A Bologna, oggi, si rimane immobili, esattamente come quell’orologio, in piazza Medaglie D’Oro. Che, certo, è rotto, ma in fondo non sono mai riusciti a fermarlo del tutto. Perché almeno per un minuto, ogni giorno e ogni anno, continua a segnare l’ora esatta. Sono le 10 e 25. «Ero al buio e non riuscivo a muovermi. Non ricordavo dove fossi e cosa stessi facendo laggiù». La sua fotografia di quel giorno è questa, e non quell’altra, quella che la ritrae su una barella, mentre i soccorritori la trasportano verso l’ambulanza più vicina. Quella che a lungo ha odiato e che suo malgrado ha fatto il giro del mondo, diventando il simbolo della Strage fascista alla Stazione di Bologna.
I ricordi più nitidi di Marina Gamberini risalgono alla sera precedente. Il suo 2 agosto, quello vivo nella mente e ricchissimo di particolari, inizia lì, a casa con i genitori. Con la madre, che le ha appena regalato un completino, e lei, che decide di indossarlo il giorno dopo, a lavoro. Alla Cigar, il buffet della Stazione. «Dopo mi ero fatta una maglia di cotone, cucivo ai ferri, ma le maniche non le avevo attaccate perché era estate e l’avrei indossata come fosse una canottiera».
Incastrata sotto le macerie e con una frattura al cranio, l’unica consapevolezza che la accompagna per ore, fino a quando qualcuno non arriva a salvarla, è di «non riuscire ad uscire da lì». Per il resto è buio, c’è un buco nella sua memoria, non sa nemmeno chi sia fino a quando un suo superiore non la vede, sulla barella, e grida il suo nome. È solo in quel momento, molto dopo lo scoppio della bomba, che Marina capisce di trovarsi in mezzo ad un disastro. «Qualcuno, a me, l’ha messa sotto al sedere quella bomba» dice ripensando ai «tanti schiaffi» presi in questi anni. Non le interessano le polemiche o le piste fantasiose.
Lei vuole sapere chi ha mandato Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Come scritto anche dal segretario del Pd Bersani al presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi («Voglio dirti che noi faremo da argine al tentativo di inquinare l’esito dei processi. Resta da capire chi fossero i mandanti occulti e quali forze abbiano realmente operato per arrivare ad un esito non democratico della vicenda italiana»).
«Le polemiche ci hanno stancato, sono le solite invenzioni, le solite bugie, le costruzioni false, perché devono coprire quel che è successo e sviare l’opinione pubblica». Anche Lidia Secci, che quel giorno perse il figlio ventiquattrenne, Sergio, guarda il Maestro Venerabile, Licio Gelli, e il terrorista nero, Giusva Fioravanti, e passa. «Con l’Associazione abbiamo tracciato un percorso e resistiamo – spiega – noi insistiamo».
Affianco a lei Sonia Zanotti annuisce: «Evidentemente non sanno più che inventarsi se arrivano ad insultarci personalmente». Sonia nel 1980 aveva 11 anni. Le ultime settimane le aveva trascorse in vacanza sui colli romagnoli e stava per tornare a casa, in Alto Adige. Con lei una cugina più grande, aspettavano il treno delle 11.30. Degli attimi precedenti alla strage ricorda solo che «c’era tanta gente che andava e veniva».
Dell’istante immediatamente successivo, l’inferno: «Il fuoco, la polvere, le sirene, ricordo tutto, la confusione, le grida, il sangue». Dopo 32 anni anche oggi è il 2 agosto, il giorno della «Strage».
L’Unità 02.08.12