Dopo aver ottenuto in dote lo scalpo di un bipolarismo rozzo, il Centro appare in crisi di identità. Fin quando si trattava di demolire l’edificio malconcio di una seconda Repubblica densa di narrazioni fiabesche e priva di ogni capacità di governo, i suoi colpi affondavano nel ventre molle di un populismo che assumeva le sembianze ridicole del comico. Ma dopo che quella macchina bipolare è stata rottamata per manifesta inadeguatezza dinanzi agli scenari drammatici della crisi, il Centro si trova a corto di una valida strategia politica.
C’è molta ambiguità nell’area moderata. Una volta si spinge fino ad indicare un percorso di medio termine condiviso con la sinistra, e in un’altra occasione essa si aggrappa ai tecnici nell’illusoria volontà di abitare a lungo nella casa indistinta della grande coalizione. Non c’è, in questo ondivago procedere, solo il riflesso di un tatticismo fisiologico nella condotta di una forza minore che deve condurre una inevitabile lotta per la sopravvivenza. Si nasconde anche uno strabismo sulle caratteristiche da conferire al nuovo sistema politico.
Il pessimo rendimento mostrato dal bipolarismo ai tempi di Berlusconi non significa che si possa archiviare impunemente la forma più matura di una democrazia competitiva per rannicchiarsi entro una periferica zona protetta in cui dorme per sempre il gioco dell’alternanza. Il Centro, quando non intende decidere da che parte stare e si rivolge con estasi al soccorso della tecnica, auspica in sostanza una riedizione della vetusta soluzione trasformista. E cioè sogna di allestire una grande area centrale che si riveli in grado di attrarre le forze più responsabili costringendole a stare insieme per un irrinunciabile senso del dovere. La metamorfosi di un ritrovato contingente dettato dalla emergenza in un dato sistemico permanente allontanerebbe però l’Italia dalle caratteristiche di fondo visibili nei sistemi politici europei.
Il fallimento del bipolarismo meccanico non può certo comportare la mesta restaurazione del passato spirito consociativo. La nostalgia trasformista, che si impadronisce dell’area moderata, sollecita una costante operazione chirurgica per effettuare il taglio delle ali. Il pareggio elettorale è visto come un miracolo per difendere la fortezza assediata della democrazia abitata solo da forze che per un perenne stato di necessità convergono verso il centro e rinunciano a costruire delle chiare alternative programmatiche lungo l’asse destra-sinistra.
Lo scenario di una demarcazione netta tra spezzoni (di destra, di centro e di sinistra) affidabili, e quindi legittimati a governare, e schegge eterogenee da mantenere al di fuori dei giochi che contano, preclude ogni sbocco modernizzatore all’enigma italiano. Un sistema che si divide a lungo tra formazioni serie, costrette a governare tutte insieme, e soggetti antisistema, relegati ai margini della contesa politica, è condannato all’instabilità, alla chiusura difensiva, alla paralisi legislativa, all’incapacità di innovazione.
Il Centro non può pensare di aggrapparsi ai tecnici e al pareggio nelle urne per restaurare l’antico ordine consociativo che risparmia la fatica della scelta. In fondo il tentativo dei moderati è quello di cavalcare un’onda antipartito che diffida dell’alternanza in quanto tale e perciò ingessa a scopo precauzionale la battaglia politica, imponendo un blindato stato di necessità che richiede la confluenza di tutti sotto lo stesso ombrello. È evidente che a sognare questo esito di spoliticizzazione il Centro è indotto anche dai sommovimenti ben visibili tra i gruppuscoli liberisti e le fondazioni d’imprenditori che minacciano all’unisono il loro ingresso in politica.
Così il Centro si trova in un bivio. O cede alle lusinghe di soggetti economici, e quindi lavora per spegnere una moderna democrazia bipolare, nella quale l’area moderata deve indicare agli elettori in modo trasparente con chi allearsi. Oppure rivendica l’autonomia di una formazione che da sé svolge il complesso mestiere della mediazione degli interessi plurali, e quindi non si rassegna a ricevere le consegne da aziende e rami tecnocratici. In gioco è l’autonomia della politica minacciata da populismi irriflessivi e da poteri tecnici e imprenditoriali che intendono appaltare in forme nuove lo spazio pubblico. Non è accettabile, dinanzi alla tenaglia micidiale di populismo e tecnocrazia, che il Centro si rifugi nella saggezza dell’ostrica che immagina di schivare i pericoli di una eutanasia del politico facendo finta di non vederli.
l’Unità 31.07.12