La discussione sulla legge elettorale si va facendo sempre più sfuocata. Con il formarsi di una doppia maggioranza, una che sostiene il governo e l’altra che procede parallelamente sulle riforme, sono saltati i contorni entro i quali potevano prendersi decisioni condivise su ogni aspetto dell’attività istituzionale. Il sospetto è che questa maggioranza parallela abbia già apparecchiato per il ritorno a un proporzionale che non fa vincere nessuno agitando il totem delle preferenze come la soluzione definitiva della crisi politica. Sa davvero di ritorno all’antico. Si mette fra parentesi un ventennio di ricerca di una strada per garantire la stabilità e la governabilità senza avere la capacità di inventare qualcosa di nuovo e di più avanzato. Il tutto condito con un preteso rafforzamento del potere di decisione degli elettori, mentre appare sempre più chiaro che alcune forze politiche cercano non il sistema migliore per garantire la governabilità, ma lo strumento che consenta loro di contare anche in caso di sconfitta, non importa se si crea incertezza e instabilità al Paese. Il Pd fa bene a difendere il principio della governabilità e a dire di no alle preferenze.
Ci sono innumerevoli ragioni per questo no. Primo. In un momento nel quale il bisogno del cittadino che deve decidere a chi destinare il suo voto è sapere che cosa i diversi partiti propongono per affrontare la crisi e per mettere il Paese nelle condizioni di ricominciare a crescere, che cosa si vuole fare per diminuire la disoccupazione giovanile, e tutto il resto, i candidati devono invece cominciare la questua delle preferenze, concentrare la campagna su di sé anziché sui programmi del partito. Prevale la concorrenza interna a ciascuna lista invece dei contenuti, con costi economici enormi che spesso sono la ragione della corruzione e del voto di scambio. Essendo venuti meno i grandi partiti capaci di selezionare la classe dirigente e di indirizzare le preferenze, si ricreerebbe una prateria nella quale vince chi ha più soldi e più clientela; chi può scambiare un potere di cui già dispone. È ovvio che non si rinnova niente e nessuno. I giovani, le donne, personalità indipendenti non hanno spazio vero e non saranno neanche tanto attratti da una corsa costosa e senza speranza.
Le donne sarebbero le più penalizzate, perché sono poche quelle che hanno un curriculum istituzionale di rilievo (le sindache sono solo 1’11% e per lo più di comuni medio piccoli, una sola donna presidente di Regione), perché una campagna con la preferenza diventa molto costosa in collegi così grandi. D’altronde, i numeri delle elette con la preferenza parlano chiaro: le consigliere comunali arrivano al 19%, le consigliere regionali sono 125 su un totale di 1056, con regioni come la Calabria e la Basilicata dove non c’è nessuna donna eletta e il civile Friuli dove sono 3 su 59! È evidente che qualcosa non funziona.
La legge sulla doppia preferenza per i consigli comunali e regionali in discussione al Senato (sperando che vada in porto) è per questo molto importante come lo è una premialità ai partiti che promuovono il riequilibrio della rappresentanza di genere. Ma non è un caso che chi dice sì alle preferenze dica no alla norma antidiscriminatoria.
L’Unità 30.07.12