L’ennesima sparata di Antonio Di Pietro, che colpisce alla cieca nell’intento di mettersi alla testa di un listone dei «non allineati», ha fatto già cilecca. Un alleato di peso reclutato per dare corpo ai suoi desideri espansionistici, Nichi Vendola, l’ha subito liquidato.
Ha subito troncato con sprezzo il sogno di grandezza dell’improbabile «Tito molisano». L’ex Pm è ormai isolato e provoca tensioni persino tra le le sue sbigottite truppe. Può andare dove vuole con i suoi mezzi strategici un po’ ammaccati, tanto il destino del suo antipartito personale sembra ormai bello e segnato. Persino i grillini desiderano starne alla larga e fuggono infastiditi dal colonialismo dipietrista. Dopo il declino del Cavaliere, che scappa come può dalle Procure dopo averne combinate di tutti i colori, non ha più senso l’immagine sbiadita del magistrato ruspante che lo insegue e gli sbatte addosso il tintinnio delle manette. Appartengono alla stessa cronaca di un gioco a guardia e ladro, che ha sostituito per anni la politica e per fortuna ora non c’è più. Scaraventati via dalla storia, che con un insopportabile ritardo arriva comunque a chiedere il conto anche alle facce più toste, Berlusconi e Di Pietro conducono ora la stessa battaglia. Quella di retrovia, inscenata alla disperata per sopravvivere, seppure acciaccati, ad un tempo che sentono come non più loro.
Sono due logori eroi legati alla stessa narrazione, Di Pietro e Berlusconi. Questa poco nobile coppia di apparenti poli opposti meglio di ogni altra figura incarna il senso della defunta seconda Repubblica, da nessuno rimpianta. Il discolo miliardario che pretende di farla franca e il feroce castigatore del malcostume, che sorveglia e punisce in nome dell’Italia dei valori, recitano ruoli diversi, ma nella stessa commedia. Proprio come al medesimo e sempre più prevedibile spartito attingono Travaglio, con le ispirazioni da oracolo nel grembo che condiscono i suoi maniacali tormenti, e Sallusti con le agitazioni a comando per fare da obbediente scudo agli incubi padronali.
Ora che, dopo essere scomparso tra le rovine e infilzato dalle ingiurie, il defenestrato Berlusconi riappare, Di Pietro non sta a guardare. Queste creature gemelle che ricorrono agli stessi toni per aggredire il capo dello Stato, la Corte costituzionale, sono fatti della stessa pasta stantia. Coltivano una metafisica dell’intrigo che scorgono in ogni cosa. Il mondo è per loro solo un infinito complotto, un condensato di furbizia e di intrallazzo. Con la loro mente deviata, che si barcamena tra le ombre di fantasmi minacciosi e le allucinazioni di una privata potenza, urlano contro le macchinazioni da sventare e si esibiscono in continue vanterie. Alla testa di moribondi antipartiti personali, entrambi rivendicano un assoluto comando e non resistono al vezzo dell’autocitazione, che dovrebbe conferire un che di epocale ai loro detti, invero poco memorabili.
Amano così tanto la menzogna politica che spesso lasciano l’impressione di darla da bere anche a loro stessi, e finiscono così per restare impigliati nella rete infinita delle loro oceaniche bugie. Prediligono delle semplificazioni devianti e sbandierano delle proposte assurde, gettate in mischia tanto per sparala grossa. Nessun senso della vergogna, quella che risparmia al politico la sensazione di essere ridicolo, li accompagna e perciò rimangono ingabbiati nelle raffiche delle loro eterne precisazioni e delle rituali smentite. E proprio questa smisurata mancanza di sobrietà che li induce a straparlare è anche la ragione della loro obsolescenza.
Con un’Italia così malridotta, sarebbe una sciagura se al voto si andasse per contare gli orfani di un imbarazzante Cavaliere che tenta il colpo gobbo (sperando che le macerie diventino le sue amiche mortali) e una pattuglia di «non allineati» che insultano ogni istituzione della Repubblica e anche dove regna trasparenza gridano al tradimento. Questi due spavaldi oracoli patentati, che avvertono la concorrenza sleale del comico che impazza senza scrupoli semantici, e si adeguano con facilità al lessico del populismo, continuano a nuocere con le loro oscene bambinate.
Se ancora esiste un esiguo margine per la salvezza di questo malcapitato Paese, esso passa, come sempre, tra le mani della sinistra. Ritrovando l’unità, e aprendo anche il dialogo con i partiti moderati, quelli non infetti dal letale virus del plebiscitarismo, alla sinistra tocca domare una cupa emergenza economica, seppellire i populismi triviali e tentare una rinascita della società all’insegna di un nuovo patriottismo della Costituzione.
L’Unità 28.07.12
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