Taranto, cuore d’acciamio e sangue avvelenato, si è fermata. Ma non può essere troppo tardi, di fronte a questo dramma economico e sociale. Gli operai dell’Ilva e dell’indotto sono pronti a tutto pur di non perdere il lavoro. E si tratta di ventimila famiglie, la maggior parte monoreddito. La città, due mari e polveri rosse, stretta tra il porto, l’Arsenale e questa grande fabbrica che fu di Stato, è la questione meridionale, il suo braccio forte che va in cancrena. Cos’è Taranto oltre l’acciaio?, si chiedono laggiù. E cos’è l’Ilva, quest’azienda che secondo le perizie in mano ai magistrati produce morte, nel Sud di oggi? Già fiore all’occhiello dell’industrializzazione di Stato che qualche intellettuale dalla pancia piena, qualche giovane scrittore come Mario Desiati, liquida alla buona, trasognando forse un Sud tutto di capperi e muretti a secco, non avendo mai conosciuto miseria e violenza delle campagne del dopoguerra dopo decenni di inefficienza pubblica, in cui la questione ambientale non fu mai posta, in pochi anni dalla privatizzazione ha volto, persino insperabilmente, le sue produzioni all’efficienza. Con l’impegno congiunto degli investimenti aziendali e dei lavoratori, ora produce il 40% del fabbisogno di acciaio dell’industria metalmeccanica nazionale e regge una buona fetta dell’export meridionale: successi economici che la crisi ha scalfito solo in parte. Però l’Ilva, un’azienda con un’età media molto bassa (31 anni), è soprattutto un monumento del lavoro nel Mezzogiorno: pressoché l’unico rimasto, in quel deserto industriale che sta diventando il Sud, da cui sono sparite anche le cattedrali, lasciando disastri ambientali altrettanto gravi e forse più, perché vi s’aggiunge quello peggiore della dimenticanza. Se l’impegno aziendale sulla sostenibilità degli impianti è stato tardivo e «forzato», l’allarmismo riflesso di queste ore non può far dimenticare infatti che la Puglia, dopo decenni di colpe e omissioni tarantine (in nome dell’occupazione o delle collusioni con l’azienda), ha cercato di affrontare la questione ambientale, approvando una legge sulla diossina che il resto del Paese si sogna e strumenti come la «valutazione di impatto sanitario», avviando un processo difficile di risanamento in un’area industriale avvelenata, che racchiude un grosso pezzo di economia nazionale (tra cui l’Eni che raffina il petrolio lucano), a ridosso della città già carica di amianto e inquinamento spesso di Stato. Sono troppe le responsabilità del passato, sulla salute e sull’ambiente, per cui occorre avere rispetto per l’operato della magistratura. Tuttavia, l’auspicio è che nel breve spazio di tempo rimasto, si riesca a scongiurare la chiusura dello stabilimento. Bisogna guardarle bene queste facce di operai, vecchi e giovani che indossano tute come corazze. La loro condizione umana è sempre più separata dalla città in cui pure vivono, in quel quartiere dei Tamburi, popolato un tempo dai metal-mezzadri con la loro identità divisa, che confina proprio con l’area a caldo. Proprio lì è maggiore l’incidenza di malattie e tumori derivanti dall’inquinamento industriale, e di morti pianti nel silenzio delle case, dopo aver pianto per anni quelli sul lavoro, sempre col ricatto della fame. Il dramma è che l’ambientalismo militante sembra essere loro distante e nemico affollato a Taranto da un certo «professionismo», con punte di miseria intellettuale quando è pronto a chiudere lo stabilimento, possa pure andare ad inquinare a mille km di cielo più in là, in Africa o in Albania. La città, in mezzo, vive contiguità e separatezza con la fabbrica, e con rassegnazione l’alternativa inevitabile tra disoccupazione e inquinamento: un poco pensa alla salute, che se ne va, e un po’ alla crisi, che non se ne va più. Così, è l’intero Mezzogiorno, nella sua spirale economica e sociale. Col futuro dell’acciaieria di Taranto, non è in gioco solo un’emergenza sociale, ma soprattutto una scommessa a cui non si può rinunciare: l’avvio di quel processo forse tardivo, ma ormai sancito per la bonifica e la riqualificazione dell’area industriale, e per l’ambientalizzazione dell’impianto, al fine di rendere ancor più sostenibile, come altrove, la produzione dell’acciaio. Questa è l’unica strada nello scenario meridionale di poli industriali in crisi e disastri ambientali, da Gela a Napoli. Spenti gli altiforni nottetempo, qualcuno potrebbe vagheggiare un Sud tutto giardini e bellezza – e chi riparerà alle bruttezze abbandonate, alla fine del benessere sociale di un lavoro produttivo? Sognano un luogo per farci solo le vacanze? Per troppi giovani emigrati è già così.
L’Unità 28.07.12