L’arroganza auto compiaciuta di Roberto Formigoni è un inedito nella storia degli impuniti italiani. Asserragliato e isolato nella sua Regione ormai allo sfascio, questo governatore imputato per corruzione è il guelfo degenerato, è l’integralista in eccesso che non si rassegna neppure all’evidenza e continua da forsennato la sua battaglia contro lo stato laico e contro tutti, spavaldo e al tempo disperato come un verso di Leopardi: «L’armi, qua l’armi: io solo combatterò, procomberò sol io». Bollato dal successore di don Giussani Juan Carron per «l’attrattiva del potere, dei soldi, degli stili di vita», Formigoni è ormai trattato come un peccatore anche dai suoi ex fratelli di Comunione e Liberazione che gli rinfacciano «di avere trasformato la Comunione tra di noi», vale a dire la pratica spirituale di mettersi in comunità, «in solidarietà di cricca». Tutti infatti sanno che quel compiacere Daccò in cambio di feste, barche e danaro non è religiosità ma sicuramente simonia e probabilmente
anche reato.
Venti anni fa, l’individuo collettivo Roberto Formigoni prese per conto di Cl la Lombardia per farne la regione del Papa, «come la Polonia — dicevano allora — felice e liberata di Wojtyla». Ebbene adesso Formigoni, in nome dello stesso Cristo, non vuole lasciare il governo di una Regione che è il paradigma della corruzione più cupa e penitenziale: creste sulle mense, corsie di ospedali trasformate in scannatoi dove spremere danaro, mazzette sulle flebo che alimentano conti in Svizzera… I suoi ex fratelli non si abbandonano ad invettive né gli lanciano le monetine davanti al Pirellone perché lo stile di Cl non è quello normale dell’indignazione, dell’urlare e del battere i pugni o dello
stamparsi in faccia la delusione. I soldati di Cristo, “i nostri”, i cattolici totali, i Memores Domini consumano nel silenzio gli abbandoni e i tradimenti, non aggrediscono ma girano le spalle a chi sbaglia e qualche volta anche a chi è soltanto in difficoltà perché il fallimento non deve mai sporcare la macchina di Dio. Così si comportarono per esempio con il giornalista Antonio Socci quando si dimostrò inadeguato al ruolo di nuovo anchorman in tv. E così agirono con Giuliano Ferrara per quella lista antiaborto che pure insieme a lui avevano creato. Capirono che era destinata alla sconfitta e ritirarono il consenso e i candidati la notte della vigilia, a poche ore dalla consegna degli elenchi elettorali.
Ebbene, Formigoni sa di essere stato espulso per sempre dal quel suo mondo. Sente oggi su di sé la crudeltà di meccanismi che egli stesso ha praticato.
Riconosce se stesso negli altri. Tanto più che mai nessuno era stato così deludente, neppure Giubilo e Sbardella negli anni del saccheggio di Roma. Per i cattolici delusi di Cl solo Formigoni è il sepolcro imbiancato: il candore della biacca sul viso che nasconde e rivela i calli del peccato.
Ecco perché Formigoni è un guelfo degenerato, solo così si capisce la sua esibizione di arroganza esagitata. La foga allucinata è la stessa dei predicatori che erano stati condannati dall’Inquisizione e si avviavano danzando al supplizio. E dunque adesso affronta le conferenze stampa come un soldato di Cristo che ha perso l’esercito, ma ingaggia con i giornalisti combattimenti mistici.
Se provate ad osservarlo senza sonoro scoprirete la felicità del mimo scatenato, l’estasi del santo in cerca di un altare. Ma se, al contrario, alzate il volume ed eliminate il video, il linguaggio è quello delle storiacce di pretura, affaracci di commercio e di potere collocati dentro i tabernacoli. Ai cronisti non risponde perché sono « degnissimi gazzettieri della procura», cioè emissari del maligno. I giudici si muovono in preda a «cieco furore ideologico» come Anna e Caifa, gli inquisitori del Sinedrio.
E quel paragonarsi a Gesù Cristo «al maestro che anche lui ha sbagliato nello scegliersi i collaboratori » va al di là della bestemmia, come ha scritto sul Corriere della Sera la moglie del suo amico di sempre, quell’Antonio Simone che fu amatissimo da don Giussani e ora si trova in galera, se non per lui per il loro “Avvenimento”. La lettera di Carla Vites in Simone, che lo conosce e lo frequenta da almeno trenta anni, è un trattato di malinconia, il documento di una comunità dissolta, un “come eravamo” dantesco, «Formigoni, io vorrei che tu Daccò e io…», una storia di lucciole pasoliniane spente dalla più miserabile delle corruzioni perché giocata sulle vite degli altri, sulla galera degli amici e dei complici, su Dio bestemmiato nelle barche di lusso e negli alberghi a 5 stelle, negli aperitivi e negli accappatoi a bordo piscina, la degradazione di Cristo ridotto a fuffa vip.
Davvero mai si era vista un’arroganza tanto isterica, e non più a conforto della sua identità di “diva” in camicie a fiori dal gusto eccentrico e cravatte sgargianti. Questo non è più il presidente
pop alla ricerca di un Andy Warhol che lo dipinga, qui non c’entrano il voto di castità e gli amorazzi e i paparazzi, i baci e le liti con le brune focose, la débauche scandalistica come contrappasso alla paralisi sessuale, l’ammiccamento al peccato che è l’ossessiva tentazione del supercattolico. Oggi l’arroganza di Formigoni segna anche la fine di qualsiasi estetica trasgressiva, non è più il fatalone alla prese con un fato ostile e ingrato, ma il recidivo sfrontato che scatena ormai solo la tifoseria degli ultimi ultras, quelli che misurano la vita a colpi di attributi, che non sono qualità ma il peso specifico dei soliti genitali. Ieri il Giornale lo ha lodato perché « ha tirato fuori gli attributi e ha risposto con un secco “ma vaffa” a pm e giornalisti». Come si vede la bizzarria è stata archiviata, siamo alla volgarità e alle bravate esibite come titoli di coda di un sistema di potere. Presto anche i tic hawaiani del credente appariscente dell’Italia dell’arraffo saranno dimenticati come le gag delle televisioni di provincia e di risulta.
La Lombardia ha infatti bisogno di seppellire l’epoca di quel governatore che pensava di promuovere i mobilieri locali lasciandosi fotografare in panciolle su un lettone. È Formigoni stesso a chiudere su di sé il libro del pittoresco: «la corruzione l’ha ghe minga», oppure «chiarirò ai giudici di che cosa si occupa un governatore di Regione» non sono più sbuffi di folclore da satrapo devoto, ma l’arroganza disperata dell’epilogo. E non solo non gli arriva più nessuna indulgenza, ma gli nega persino la pietas quella Milano della religiosità manzoniana che sempre lo aveva avversato ma non lo aveva ancora maledetto. Ed è orbato anche della “sussidiarietà” del centrodestra e di quel Berlusconi del quale avrebbe dovuto prendere il posto «quando finirà la ricreazione » dicevano i leader di Cl. Gli rimane solo l’appoggio della Lega a paradossale conferma che tutto è davvero finito, perché la Lega è appunto l’antistato ridotto a sgangherata armata Brancaleone. Per Formigoni è l’ultima flebo, come il metadone per il tossico o un Fernet per un ubriaco all’ultimo stadio. È vero che l’Italia è il Paese dove non si dimette mai nessuno, e nessun topo si sente fuori posto nel formaggio. Ma anche da questo punto di vista l’arroganza di Formigoni è oltre. Per lui le dimissioni sono ignobili, ripugnanti e vili perché non riconosce il Diritto che gliele impone. Nessuno può dimettere Giovanna d’Arco e nessuno che si crede Giovanna d’Arco si dimetterà mai davanti ai suoi nemici.
Questi di Cl hanno studiato tanto Giulio Andreotti per non arrivare a nulla. E difatti quando sono smascherati invece di usare l’ironia e la sapienza andreottiane abusano del vittimismo che è appunto il rifugio dei sepolcri imbiancati. Andreotti diventava il cireneo costretto a portare una croce non sua, Formigoni invece si vede già resuscitato e pensa che questa sia la sua passione, che alla fine del dolore e dell’umiliazione arriverà la palingenesi, il premio finale, un mondo dove non ci saranno più i magistrati ma quell’unico giudice benevolo che già gli strizza l’occhio: «Vieni Roberto, vieni, hai vinto dodici a zero».
La Repubblica 27.07.12