«L’albero degli zoccoli» è un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi, vincitore della Palma d’oro al 31º Festival di Cannes. Il film fu girato nel dialetto bergamasco della zona in cui l’opera è ambientata (il film è stato girato prevalentemente nella pianura compresa tra i comuni di Martinengo, Palosco, Cividate al Piano, Mornico al Serio, Cortenuova e principalmente Treviglio) e fu poi doppiato in italiano dagli stessi attori per la distribuzione italiana. Notevole è la perfetta corrispondenza tra l’ideologia e il linguaggio. Tutti gli attori sono contadini e gente della campagna bergamasca senza alcuna precedente esperienza di recitazione. In una cascina di pianura a Palosco (nella campagna bergamasca), tra l’autunno 1897 e la primavera 1898, vivono 4 famiglie di contadini. Minek (Domenico), un bimbo di 6 anni sveglio ed intelligente, deve fare 6 chilometri per andare a scuola. Un giorno torna a casa con uno zoccolo rotto. Non avendo soldi per comprare un nuovo paio di scarpe, il padre Batistì decide di tagliare di nascosto un albero per fare un nuovo paio di zoccoli al figlio. Il padrone della cascina però viene a saperlo e alla fine viene scoperto il colpevole: la famiglia di Minek, composta dal padre Batistì, dalla moglie Battistina e dai tre figli di cui uno ancora in fasce, caricate le povere cose sul carro, viene cacciata dalla cascina. Accanto a questa vicenda che apre, chiude e dà il titolo al film, si alternano episodi della umile vita contadina della cascina, contrassegnata dal lavoro nei campi e dalla preghiera. Tra i personaggi esterni alla cascina, oltre al padrone e al fattore, ha una significativa importanza il parroco del paese don Carlo, il quale pur avendo un’istruzione e appartenendo a un diverso ceto sociale, si prende cura della vita dei contadini e li guida e consiglia con le sue parole.
A Treviglio ci sono 29.000 abitanti e 29.000 maiali. Nel comune confinante, Caravaggio, il rapporto è addirittura di uno a due: 15.000 esseri umani, 30.000 suini. Infatti i caravaggini in dialetto vengono chiamati «porsèli», porcelli. Non è un insulto, da queste parti, perché queste sono le parti dell’«Albero degli zoccoli», e qui tutto quello che è legato al mondo contadino è storia, cultura e, ancora oggi, sostentamento. Treviglio il maiale l’ha messo nello stemma del Comune, dove lo si vede afferrato agli artigli di un’aquila e sospeso per aria sopra una torre e due leoni.
Ermanno Olmi venne qui nel 1977 a girare il suo film più bello. Questa era la terra di sua nonna Elisabetta, qui veniva da bambino a passare l’estate; poi ci passò gli anni della guerra, quando la sua famiglia era sfollata da Milano per i bombardamenti. Qui, a Castel Cerreto, che è una frazione agricola di Treviglio, arruolò tutti gli attori dell’«Albero degli zoccoli», recitato interamente da contadini perché doveva essere il più vero possibile. La cascina utilizzata per le riprese si chiama Roggia Sale ed è invece a Palosco, un po’ più a est, nella Bassa Bergamasca orientale. Olmi la trovò per caso, una sera in cui si era perso nella nebbia fra i tratturi di campagna: «D’un tratto imboccai per sbaglio un sentiero e mi trovai di fronte una cascina che era esattamente come la casa della mia infanzia. Avevo 46 anni e scoppiai a piangere».
Si sentiva figlio di quella terra e fare «L’albero degli zoccoli» fu per lui come fare il ritratto di una madre che non c’è più, cercandola nel profondo della memoria. Lo volle parlato in bergamasco, e gli obiettarono che non si sarebbe capito. Invece, il film stregò anche la giuria internazionale di Cannes, che nel 1978 gli assegnò la Palma d’oro. Fu come il segno di una svolta: alle soglie del Duemila ci si accorse che il mondo contadino era depositario di una cultura millenaria che non doveva andare dispersa. «Ho cercato di riscoprire», spiegò il regista anni dopo, «i tratti di una genitrice che ci ha protetti e che continuerà a proteggerci: la terra».
Ci trovammo così a fare i conti con le nostre radici: l’Italia di fine Ottocento, la cascina del Batistì dove vivevano quattro o cinque famiglie; con le bestie, gli alberi e gli attrezzi che appartenevano a un padrone cui spettava la maggior parte del raccolto. Un’Italia povera, ma non disperata. «Insomma, un’altra bocca da sfamare», dice il Batistì alla moglie che ha appena partorito il terzo figlio. «Ma no», risponde lei, «non dovete preoccuparvi. Va rigurdì cusa va disìa la pora òsta màma? Quando viene al mondo un bel bambino, la Provvidenza gli dà il suo fagottino».
Un mondo in cui la dignità personale non coincideva con l’avere, né con il successo, e neppure con la salute, la bellezza o la giovinezza. «No bambini, non va bene ridere», dice la mamma ai figli che scherzano lo scemo del villaggio entrato in casa a chiedere un pezzo di pane, «quei poveretti lì, che non hanno niente dalla vita, sono quelli più vicini al Signore». Un mondo in cui l’amore era una cosa delicata: «Volevo sapere se potevo salutarvi, mi farebbe piacere darvi almeno la buonasera», è il primo approccio di Stefano a Maddalena, che risponde: «Se è solo per quello, non c’è niente di male». Al secondo incontro lui confessa: «Volevo cercarvi un bacio»; e lei risponde: «Queste sono cose che bisogna aspettare il suo tempo».
La cascina Roggia Sale di Palosco è stata abbattuta una decina d’anni fa ed è stata ricostruita. Castel Cerreto invece è rimasto un centro agricolo. C’è ancora la cascina del vero Batistì, cioè del contadino-attore, che a metà degli anni Novanta sciaguratamente si prestò per una parodia hard che si chiamava «L’albero delle zoccole» (sembra una barzelletta sporca ma purtroppo è vero), cosa che la sua comunità non gli ha perdonato. La cascina del Batistì si chiama Corte di Sotto, è stata ristrutturata dalla Fondazione Istituti Educativi di Bergamo e ospita una fraternità di famiglie numerose. A pochi metri di distanza, separata da una via intitolata ai «Probi Contadini», c’è la Corte di Sopra, un’altra vecchia cascina – è del 1773 – che è stata rimessa a nuovo, ma rispettando le antiche caratteristiche, dalla Fondazione della Cassa Rurale di Treviglio, e ospita ventidue famiglie con affitti popolari. Ritorna e non solo qui a Castel Cerreto, ma in tanta parte della Bassa Bergamasca – la consuetudine di vivere in cascina tra famiglie diverse, vecchi e giovani tutti insieme. Come nelle sere degli inverni di allora, quando ci si trovava tutti nella stalla perché c’era il tepore degli animali, e prima del rosario i più anziani raccontavano ai bambini storie antiche di campagna che facevano un po’ paura.
È una delle inaspettate rivincite che si sta prendendo il mondo dell’albero degli zoccoli, che sembrava, quando uscì il film, destinato a sopravvivere solo nei ricordi. Torna invece il vivere in cascina, e anche l’agricoltura è protagonista di un inatteso riscatto: «Da quando c’è la crisi», ci spiega un dirigente della Cassa Rurale di Treviglio, «le aziende agricole sono quelle che reggono meglio. Il loro margine di guadagno è sempre lo stesso, cioè basso, ma resta costante. Chi lavora la terra lega la sua economia a cose concrete, che non passano». In provincia di Bergamo le aziende agricole sono più di cinquemila; nella zona di influenza della Cassa Rurale di Treviglio più di duemila. Zootecnia da latte e da carne, granoturco, molta orticoltura che produce le insalate già pronte e lavate che troviamo al supermercato.
Eppure proprio questa terra che sta riscoprendo il passato sembra destinata a diventare anche uno dei punti strategici del nuovo Nord. In un Paese in cui le infrastrutture sono un punto dolente, il Trevigliese si appresta a svolgere un ruolo da snodo cruciale. L’anno prossimo sarà ultimata la Brebemi, autostrada che collegherà Brescia a Milano toccando tredici comuni della Bassa Bergamasca senza passare dal capoluogo, e quindi più velocemente rispetto all’A4 attuale. Tra poco partiranno i lavori anche per l’autostrada Treviglio-Bergamo, mentre un’altra grande e nuova strada che passerà più a nord, la Pedemontana, avrà una bretella parallela all’Adda che la collegherà con la Brebemi e con l’autostrada del sole. E poi la ferrovia ad alta velocità per Venezia: ci sono già lavori fra Treviglio e Pioltello. Grandi opere che vanno avanti con pochissime contestazioni, perché il territorio non è stato messo di fronte a un fatto compiuto ma è stato consultato, coinvolto, fatto partecipe. «Sono un ambientalista convinto ma debbo dire che l’impatto di questi lavori è stato davvero minimo e che si è fatto in modo di valorizzare la nostra agricoltura», dice Luigi Minuti, sindaco di Treviglio per tre mandati (dal 1988 al 2001) e ora consigliere comunale.
Minuti è una delle memorie storiche del Trevigliese, autore di molti libri di cultura locale. «L’albero degli zoccoli», racconta, «fu un film bellissimo, che esprimeva davvero l’atmosfera del tempo e il soffocante rapporto fra i contadini e i loro padroni, una situazione molto simile a quella della Russia zarista». A quelle generazioni di «padroni» apparteneva il Messagiù, lo spietato latifondista che alla fine del film caccia dalla cascina il Batistì, colpevole di aver tagliato un albero per ricavarne un paio di zoccoli da dare al figlioletto Minek che ogni mattina deve fare dodici chilometri a piedi per andare e tornare da scuola. «È un personaggio veramente esistito», spiega Minuti, «si chiamava Giuseppe Messaggi, nato nel 1870 e morto nel 1956. Era un grande possidente e da queste parti aveva il monopolio del vino. Un omone grande e grosso che si faceva portare in giro su una sedia gestatoria come il papa. In realtà non era cattivo, anzi fu generoso e alla fine lasciò tutto al Comune di Treviglio. Ma è l’immagine del padrone».
E fu per aiutare la povera gente vittima di tanti soprusi che nel 1893 un prete, monsignor Ambrogio Portaluppi, fondò la Cassa Rurale di Treviglio, di cui Olmi è socio onorario: «La nostra banca», dice Gianfranco Bonacina, l’attuale presidente, che è nato proprio a Castel Cerreto, «nacque appunto per dare ai tanti Batistì allora cacciati dai loro padroni la possibilità di diventare proprietari di una terra e di affrancarsi finalmente da una secolare condizione di sottomissione». Ancora oggi, la Cassa rurale di Treviglio ha come mandato quello di non pensare solo al profitto ma anche a dare una mano ai bisognosi, perché «ci si deve soccorrere a vicenda a questo mondo», come dice una suora in una delle ultime scene del film.
«Cercate di volervi sempre bene», dice don Carlo quando celebra il matrimonio di Stefano e Maddalena, «perché non c’è denaro al mondo che può pagare l’amore di due persone. El paradìs, regurdès, al cumìncia de l’amùr che saremo capaci di volerci noi qui sulla terra». Immagini e ricordi di un mondo lontano, che ci fanno pensare a quanto abbiamo guadagnato, rispetto a quei tempi, e a quanto abbiamo perduto.
La Stampa 23.07.12
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