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"Dalla carne alla mozzarella Camorra food spa serve a tavola", di Roberto Saviano

Mozzarelle, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata. Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D’Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L’operazione della Guardia di finanza “Caffè macchiato” del 2011 ha mostrato che l’imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo ma ha anche svelato l’esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l’espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al “gruppo Setola”. Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un’alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè “È cafè”, prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.
Sembra un’economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell’agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all’affare una parvenza di legalità. E poi c’è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.
Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l’imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un’espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo
nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome.
A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d’acqua minerale. Ma anche l’acqua può essere affare dei clan. Il boss dei Polverino di Marano, Peppe o’ Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell’acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l’acqua campana negli Stati Uniti. Poi d’improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d’acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore Il camorrista (tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o’ Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o’ Malacarne: «Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola».
I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l’operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.
E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d’infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l’Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.
Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell’Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.
Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell’articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l’operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un’inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L’organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: «Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino», dell’omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l’attività criminale per sostenere l’impero dei generi alimentari.
E poi c’è la frutta: la camorra fa da tramite dall’Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può
scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L’operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L’ortomercato
alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la ’ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell’affare mafioso.
Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acqui-
stato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l’altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come “tassa” per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.
Infine c’è la mozzarella, prodotto campano d’eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall’est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall’abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all’arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell’azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l’imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l’indicazione Dop anche se il procedimento non l’avrebbe affatto consentito.
Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d’Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell’antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un’imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.
Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell’ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L’alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l’eccellenza italiana.

La Repubblica 23.07.12

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