Le tasse pedagogiche sono l’ultima frontiera della spending review. Qualcuno in passato era arrivato a sostenere la bellezza del tributo versato allo Stato. Ma nessuno, ancora, si era spinto a suggerirne quasi il valore educativo, insieme all’aumento. Più si paga, più si impara? Se così fosse, gli studenti italiani dovrebbero davvero eccellere. Visto che le tasse che pagano sono già adesso tra le più alte d’Europa (più care, solo quelle di Regno Unito e Olanda). E invece succede che le università italiane devono fare i conti con 31mila matricole in meno rispetto a dieci anni fa.
Ventenni, certo, scoraggiati anche dai costi dell’università. Non a caso, finlandesi, norvegesi, danesi, svedesi, islandesi, cechi per incentivare le iscrizioni non fanno pagare tasse. Il governo Monti ha scelto tutt’altra strategia. Nella revisione della spesa ha inserito una serie di norme che permetteranno in sostanza gli atenei di far pagare più tasse ai loro studenti. Il ministro Profumo, appunto, sostiene anche che ci sia un risvolto pedagogico in tutto questo. Il «processo di responsabilizzazione dei nostri studenti» – spiega – in tempi di crisi passa anche attraverso i meccanismi della contribuzione universitaria. Nel mirino, sono finiti in particolare gli studenti «fuori corso»: «Non fanno bene al paese», «sono un problema culturale», «non possiamo permetterceli». Soluzione: aumentiamogli le tasse, così imparano. Ma davvero il bersaglio sono loro? I Giovani democratici della Rete universitaria nazionale, numeri alla mano, dimostrano che non è così: secondo le loro proiezioni, se passerà la norma introdotta nella spending review, in realtà, l’aumento delle tasse, almeno potenzialmente, riguarderà tutti. Ciascuno studente potrebbe dover pagare fino a 600 euro in più l’anno. Il calcolo è semplice. Ma richiede una premessa. Sui tributi, gli atenei hanno sempre fatto come hanno voluto. Unico limite: la contribuzione non doveva superare il 20% dei trasferimenti sul fondo di finanziamento ordinario. Anche così, la metà delle università in questi anni ha chiesto agli studenti più tasse del dovuto. E il governo invece di schierarsi dalla parte di questi ultimi, ha deciso di mettere nelle mani delle università uno strumento in più per rivalersi sulla contribuzione.
Una operazione che sa tanto di «dividi e tassa». Di qua, gli studenti in regola, anzi «gli studenti italiani in corso» – proprio così specifica la norma: “italiani” – i cui contributi non potranno superare il nuovo limite del 20%. Di là, un calderone che, con una logica che ha fatto gridare gli studenti alla “discriminazione”, unisce le sorti degli studenti extracomunitari, seconde generazioni incluse, a quelle dei fuori corso, che sono circa il 40%. Tutti loro, da domani, quando gli atenei decideranno di aumentare le tasse, non si ritroveranno più un “tetto” contributivo sulla testa a proteggerli. Gli altri saranno rimasti così pochi che il tetto alla contribuzione universitaria superato oggi da 34 atenei su 62 improvvisamente lascerà ampio spazio agli aumenti. Anche perché il governo lo ha ritoccato verso l’alto: se prima il 20% si calcolava rispetto al fondo di finanziamento ordinario, ora si calcola rispetto a una più generica somma di tutti i trasferimenti dallo Stato.
Risultato: tolti 166mila esonerati, gli studenti che pagano le tasse attualmente sono un milione e 475mila. I regolari sono il 61,3%, E, a parità di importo, quello che tutti insieme verserebbero nelle casse delle università non supererebbe il 12,6% dei finanziamenti statali. Insomma, il margine per aumentare le tasse, grazie alle nuove norme, è assai ampio. L’aumento potenziale medio si aggirerebbe intorno a 600 euro. Ma vista l’attuale varietà di trattamento che gli atenei riservano è chiaro prevedere che in molte università le tasse potranno aumentare anche di più.
È sulla base di questi numeri che i Giovani democratici hanno lanciato la sfida al ministro Profumo. E, tra gli stand di salsicce e le tavole imbandite della festa dell’Unità di Roma, dieci giorni fa, hanno strappato la promessa di un incontro nelle alte stanze di Viale Trastevere.
Nell’attesa, hanno convinto il Pd a sposare la loro battaglia. Con un emendamento già depositato in parlamento che chiede l’abrogazione dell’articolo introdotto nella spending review.
«In effetti, non si capisce perché introdurre una norma che permetterà agli atenei di alzare le tasse in un provvedimento che dovrebbe invece occuparsi di rivedere la spesa pubblica», concorda una delle massime esperte di contribuzione studentesca, Federica Laudisa, dell’Osservatorio per il diritto allo studio del Piemonte. Molto critica con le nuove norme imposte dalla spending review. I numeri elaborati dai Giovani democratici se mai a suo avviso sono approssimati per difetto. A quelli, aggiunge un altro dato che la preoccupa: gli studenti part-time nel 2010-11 sono stati poco meno di 36mila, appena il 2% della popolazione studentesca. Molti di più evidentemente preferiscono iscriversi regolarmente e finire fuori corso. Quanto alle norme che regolano le tasse, la deregulation è totale. Con qualche eccezione positiva. Al Politecnico di Torino, rettore lo stesso Profumo, è stata intro- dotta – ricorda Federica Laudisa – una tassazione progressiva che, invece delle 4 o 5 fasce di reddito, prevede che, so- pra ai 12.500 euro, ogni mille euro di reddito in più scatti un aumento di 28 euro. Per ora, da ministro, Profumo non ha esteso l’esperimento. Anzi, in questi mesi: «A fissare delle regole generali a tutela degli studenti non è stata emanata neppure una direttiva ministeriale», sottolinea la studiosa. Mentre contro l’aumento delle tasse, l’unica possibilità per gli studenti è stata appellarsi ai tribunali. Adesso l’ulteriore “via libera” che arriva dalla spending review renderà vano anche quel tentativo già percorso (con successo).
L’Unità 21.07.12